Infinite Jest

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DAVID FOSTER WALLACE

Se David Foster Wallace, la sera del 12 settembre del 2008, non si fosse fatto trovare nella posa dell’impiccato dalla moglie Karen Green, oggi avrebbe compiuto 50 anni. Chi era David Foster Wallace? Per qualcuno era un genio assoluto, uno dei più influenti scrittori della sua generazione, una stella letteraria di prima grandezza che si è consumata troppo presto. Per altri era l’oggetto di una grossa operazione di sopravvalutazione, uno scrittore saccente e spocchioso.

La mia opinione personale è che David Foster Wallace fosse prima di tutto un uomo di statura intellettuale gigantesca, capace di formulare alcune delle migliori intuizioni che abbia mai letto su questa nostra decadente società dello spettacolo. Spesso queste intuizioni riusciva a mescolarle con la giusta dose di sarcasmo e di amaro umorismo, aggiungendovi una lingua scoppiettante e trame pazzesche, creando momenti di altissima letteratura.

L’unica malattia di cui ho l’impressione soffrisse la prosa di David Foster Wallace era una sorta di incontinenza, ovvero una scarsa capacità di autocontrollo, di contenimento delle trame della propria scrittura, un’incontinenza che in qualche caso può arrivare a spingere il lettore a fare a pugni con il libro che sta leggendo – a me è successo con Infinite Jest,

Suicide of David Foster Wallace: A shock but not a surprise è l’eloquente titolo di un articolo firmato da Jeff Simon sul «The Buffalo News» di ieri.

L’articolista definisce subito l’impiccagione di Wallace «inequivocabilmente intenzionale», fugando ogni eventuale sospetto che si sia trattato di qualche «bizzarro omicidio da CSI».

Quanto all’assenza di biglietti d’addio, Simon cita un’email del professor Mark Shechner: «tutta la sua vita è stata una lunga lettera di suicidio.» Già in tempi non sospetti, in una recensione di Oblio del 2004, Shechner aveva scritto che «David Foster Wallace è il più brillante depressivo letterario d’America. È anche uno dei nostri scrittori più divertenti, che più viene trascinato dal cane nero della depressione e più diventa divertente.»

Pur avendo avuto «un meraviglioso scambio di lettere» con David Foster Wallace, il suo editore Michael Pietsch si rifiuta di parlare della vita privata dello scrittore trovato impiccato a Claremont in California.

L’opinione pubblica comincia però a conoscere i motivi, comunque intuibili, del tragico gesto. Secondo il «New York Times» il padre di David, James Donald Wallace, docente di filosofia all’Università dell’Illinois, avrebbe rivelato che l’autore di Infinite Jest soffriva da alcuni mesi di una grave depressione.

Intanto il sito Respectance.com ha aperto una pagina dedicata a DFW, nella quale ciascuno può condividere con la collettività i propri ricordi personali di David Foster Wallace. Scrive Laure B. Davis, rivolta alla vedova di DFW: «entrambi i miei fratelli (alcolizzati e drogati, che Dio li benedica) si sono impiccati. L’ultimo lo scorso aprile. E io sono una scrittrice che da tredici anni è sobria e pulita, ma che ancora combatte con la depressione di tanto in tanto (ci sono scrittori che non lo fanno?). Lo dico solo per assicurarle che in qualche modo capisco che tipo di dolore sta vivendo.»

 

David Foster Wallace era depresso da mesi

Il suicidio di David Foster Wallace: il cordoglio dei lettori

pubblicato da dario

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Il suicidio di David Foster Wallace ha lasciato attonita la cosiddetta logosfera, quel settore di umanità composto da chi scrive e da chi legge letteratura in tutto il mondo. Più per completezza che per consolazione, si attende di conoscere le ragioni di un gesto così violento, che ha colto di sorpresa persino le persone più vicine a DFW.

Nel frattempo i lettori esprimono in rete il proprio dolore. I loro scritti restituiscono pienamente il senso della perdita.

Tra i commenti del blog di libri del Los Angeles Times, “kvs” scrive: «sono stordito. Abbattuto. Foster Wallace è l’unica ragione per cui sono uno scrittore e ho sempre creduto di poterlo essere.» Gli fa eco “Russell”: «speravo di potergli raccontare un giorno che cosa ha significato per me Infinite Jest, il fatto che quasi ogni giorno mi tornino in mente scene di quel libro, e quanto mi abbia aiutato a smettere di bere».

 

David Foster Wallace si è suicidato

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David Foster Wallace, «l’ultimo grande talento della letteratura americana», come lo definiva il risvolto di copertina del suo libro Oblio, è stato trovato impiccato in casa sua il 12 settembre alle ore 9:30. Aveva quarantasei anni.

«Wallace è uno dei grandi talenti della sua generazione: uno scrittore capace di qualsiasi virtuosismo», scriveva qualche mese fa il «New York Times». Lo scrittore statunitense aveva raggiunto la notorietà internazionale con libri come La scopa del sistema, che lui definiva «il romanzo di formazione di un giovane wasp ossessionato da Wittgenstein e Derrida», Infinite Jest (di cui la prima traduzione fu proprio quella italiana), la raccolta di racconti La ragazza dai capelli strani, saggi come Il rap spiegato ai bianchi, etc.

«Mi consigli qualcosa da leggere, per favore?» chiesi una volta al grande Filippo Scozzari durante un’intervista per BooksBlog. «Un libro qualsiasi di David Foster Wallace andrà benissimo,» rispose, «ma per iniziare consiglierei Tennis, tv, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più, che ho dovuto tralasciare per rispondere a ’sta noia di tua intervista.»

 

La storia dell’infinito di David Foster Wallace
di DAVID FOSTER WALLACE
Torna nelle librerie italiane in una nuova edizione il saggio sulla matematica dello scrittore americano che si è ucciso tre anni fa
Gli storici della matematica esistono. Ecco una bella citazione d’apertura tratta da uno di questi storici e risalente agli anni Trenta:
Una conclusione appare ineluttabile: senza una teoria coerente dell’infinito matematico non esiste una teoria degli irrazionali; senza una teoria degli irrazionali non esiste analisi matematica in una qualsiasi forma anche lontanamente rassomigliante a quella che abbiamo oggi; e infine senza analisi la maggior parte della matematica come la conosciamo oggi (comprese la geometria e buona parte della matematica applicata) smetterebbe di esistere. Il compito più importante che aspetta i matematici sembrerebbe quindi essere la costruzione di una teoria soddisfacente dell’infinito. Cantor ci ha provato, vedremo in seguito con quale successo.
Per il momento lasciamo stare i termini matematici più esoterici. Il Cantor di cui si parla alla fine di questa citazione è il professor Georg F.L.P. Cantor, nato nel 1845, tedesco naturalizzato appartenente alla classe mercantile e padre riconosciuto della teoria astratta degli insiemi e della matematica transfinita.Alcuni storici hanno dibattuto in lungo e in largo per decidere se fosse ebreo o no.“Cantor” è semplicemente la parola latina per “cantante”. G.F.L.P.Cantor è il matematico più importante del XIX secolo e una figura di grande complessità e pathos. Ha fatto dentro e fuori da cliniche psichiatriche per buona parte della sua maturità ed è morto in una casa di cura a Halle1 nel 1918. Anche K. Gödel, il più importante matematico del XX secolo, morì in seguito a una malattia mentale.
L. Boltzmann, il più importante fisico matematico del XIX secolo, si suicidò. E così via. Gli storici e gli studiosi pop tendono a dedicare molto tempo ai problemi psichiatrici di Cantor e a come questi potessero essere connessi al suo lavoro sulla matematica dell’infinito.
Nel 1900, nel corso del II Congresso Internazionale di Matematica, il professor D. Hilberter, numero uno della matematica mondiale, descrisse i numeri transfiniti di Georg Cantor come “il prodotto più elegante del genio matematico” e come “una delle più eleganti realizzazioni dell’attività umana nell’ambito del puramente intelligibile”. Ecco una citazione da G.K.Chesterton: “I poeti non impazziscono, ma i giocatori di scacchi sì. Impazziscono i matematici, e anche i cassieri; ma agli artisti creativi accade assai di rado. Non voglio, come si vedrà, attaccare in alcun senso la logica; dico soltanto che questo pericolo è insito nella logica, e non nell’immaginazione”.
Ed ecco un paragrafo tratto dalla quarta di copertina di una recente biografia pop di Cantor: “Alla fine dell’Ottocento uno straordinario matematico languiva in manicomio. […] Più si avvicinava alle risposte che stava cercando, più queste sembravano allontanarsi. Alla fine tutto ciò lo fece impazzire, come era successo ad altri matematici prima di lui”. I casi di grandi matematici con problemi mentali hanno un’enorme risonanza per gli scrittori e i cinematografari pop moderni. La cosa ha a che fare perlopiù con i pregiudizi e le idiosincrasie degli stessi scrittori/cinematografari, che a loro volta dipendono da quello che potremmo definire come il modello archetipico specifico della nostra era. E naturalmente questi modelli cambiano nel corso del tempo.
Il Matematico Malato di Mente sembra essere oggi ciò che in altre epoche sono stati il Cavaliere Errante, il Santo Penitente, l’Artista Tormentato e lo Scienziato Pazzo: una specie di Prometeo, colui che va nei luoghi proibiti e ne fa ritorno con doni che noi tutti utilizziamo ma dei quali solo lui paga il prezzo. Probabilmente si tratta di un’esagerazione, quantomeno nella maggior parte dei casi2. Ma Cantor si avvicina al modello più di molti altri. E le ragioni di ciò sono molto più interessanti dei suoi problemi e dei suoi sintomi3. Essere semplicemente a conoscenza dei risultati di Cantor è altra cosa rispetto a comprenderli: quest’ultimo è il progetto generale di questo libro e implica la visualizzazione della matematica transfinita come una sorta di albero, un albero con le radici negli antichi paradossi greci della continuità e dell’incommensurabilità e i rami intrecciati nelle crisi moderne dei fondamenti della matematica da Brouwer a Hilbert a Russell a Frege a Zermelo a Gödel a Cohen eccetera.
I nomi per ora sono meno importanti della faccenda dell’albero, che è il principale tipo di tropo generale che vi chiederò di tenere a mente. Chesterton, nel brano citato, si sbaglia su una cosa. O quantomeno è impreciso. Il pericolo che cerca di evocare non è la logica. La logica è solo un metodo e i metodi non possono sconvolgere la mente delle persone. Ciò di cui in realtà Chesterton vuole parlare è una delle caratteristiche principali della logica (e della matematica). L’astrazione.
Vale la pena di intendersi sul significato diastrazione. Forse è la parola più importante per comprendere il lavoro di Cantor e i contesti che l’hanno reso possibile. Da un punto di vista grammaticale la radice è aggettivale, dal latino abstractus = “tirato via”. L’Oxford English Dictionary (d’ora in poi OED) riporta nove definizioni principali dell’ aggettivo “astratto”, la più appropriata delle quali è la 4a: “distante o separato dalla materia, da un’incarnazione materiale, dalla pratica o da esempi specifici. Contrario di concreto.” Sono interessanti anche la definizione 4b (“Ideale, distillato alla propria essenza”) e 4c (“Astruso”).

Ecco una citazione da Carl B. Boyer, che è più o meno il Gibbon della storia della matematica4:“Ma in fondo cosa sono gli interi? Tutti pensano di sapere cos’è il numero tre… almeno finché non provano a definirlo o a spiegarlo.” Per quanto riguarda (d’ora in poi “P/q/r”) questa faccenda risulta istruttivo parlare con degli insegnanti di matematica di prima o seconda elementare e scoprire come di fatto vengano insegnati gli interi ai bambini. Come gli si insegna cos’è il numero cinque? Prima vengono date loro cinque arance, per esempio. Qualcosa che possano toccare e tenere in mano. Gli si chiede di contarle. Poi viene data loro un’immagine con cinque arance. Poi un’immagine che associa le cinque arance alla cifra “5”, in modo che associno le due cose. Poi un’immagine della sola cifra “5”, senza più le arance.

A quel punto i bambini fanno degli esercizi in cui iniziano a parlare dell’intero 5per se, come oggetto in sé, separato dalle cinque arance. In altre parole vengono sistematicamente ingannati (o forse risvegliati): li si spinge a trattare i numeri come cose anziché come simboli di cose. A quel punto si può insegnare loro l’aritmetica, che comprende i rapporti elementari tra i numeri. (Noterete come lo stesso metodo venga usato per insegnarci il linguaggio. Impariamo molto presto che il sostantivo “cinque” significa, simboleggia, l’intero 5. E così via.)

A volte capita che un ragazzino abbia dei problemi, dicono gli insegnanti. Alcuni bambini capiscono che la parola “cinque” sta per 5, ma continuano a voler sapere 5 cosa? 5 arance? 5 monete? 5 punti? Questi bambini, che non hanno alcun problema a sommare o sottrarre arance o monete, otterranno comunque dei risultati scarsi nei test di aritmetica. Non riescono a trattare il 5 come un oggetto in sé. Spesso vengono spostati in corsi speciali in cui tutto viene insegnato in termini di gruppi o insiemi di oggetti reali anziché di numeri “distanti da esempi specifici”5. Morale: la def. base di “astratto” per quanto ci riguarda sarà l’espressione in qualche modo concatenata “distaccato da (o trascendente la) specificità concreta e l’esperienza sensoriale”. Usato in questo modo specifico, “astratto” è un termine che deriva dalla metafisica. In tutte le teorie matematiche è infatti implicita una qualche posizione metafisica. Il padre dell’astrazione matematica: Pitagora. Il padre dell’astrazione metafisica: Platone.

Le altre definizioni dell’OED non sono però irrilevanti. Non solo perché la matematica moderna è astratta nel senso di estremamente astrusa e arcana e spesso difficile anche solo da guardare sulla pagina. Essenziale alla matematica è anche il senso in cui astrarre qualcosa può significare ridurlo alla sua essenza scheletrica assoluta, come nel caso dell’abstract (= “riassunto”) di un articolo o di un libro. Fare matematica in questo modo può anche voler dire pensare intensamente a cose alle quali le persone perlopiù non sono in grado di pensare intensamente, perché le fanno impazzire. Questo è solo una specie di riscaldamento; il resto non sarà sempre così. Ecco altre due citazioni da personaggi di grande levatura. M. Kline: “Uno dei grandi contributi dei greci al concetto stesso di matematica fu la presa di coscienza e l’accentuazione del fatto che le entità matematiche sono astrazioni, idee concepite dalla mente e nettamente distinte dagli oggetti fisici o dalle immagini”. F.d.l. Saussure:“Ciò che è sfuggito a filosofi e logici è che dal momento che un sistema di simboli diviene indipendente dagli oggetti designati, è esso stesso soggetto a subire spostamenti incalcolabili per il logico”. L’astrazione porta con sé ogni genere di problemi e rotture di scatole, lo sappiamo tutti. Una parte del rischio è il modo in cui usiamo i sostantivi. Noi pensiamo ai significati dei sostantivi in termini di denotazioni. I sostantivi indicano delle cose: uomo, scrivania, penna, David, testa, aspirina.

Un genere di comicità del tutto particolare si ha quando si ingenera confusione su cosa sia un sostantivo reale, come nel caso di “Chi gioca in prima base?” o nei tormentoni di Alice nel paese delle meraviglie:“‘Cosa vedi sulla strada? ’‘Nulla.’‘Che spettacolo dev’essere! Che aspetto ha questo nulla?’” La comicità tende però a svanire quando i sostantivi denotano delle astrazioni, ovvero dei concetti generali separati da occorrenze specifiche. Molti di questi sostantivi-astrazioni derivano da radici verbali.“Movimento” ed “esistenza” sono sostantivi; noi usiamo continuamente parole come queste. La confusione si ingenera quando proviamo a considerare cosa significhino esattamente.
È come quello che Boyer diceva sugli interi. Cosa denotano esattamente “movimento” ed “esistenza”? Sappiamo che delle cose specifiche e concrete esistono e che a volte si muovono. Esiste il movimento in sé? In che modo? In che modo esistono le astrazioni? Naturalmente l’ultima domanda è essa stessa molto astratta. Iniziate a sentire un malditesta in arrivo? Vi è un tipo speciale di disagio, di impazienza, quando si ha a che fare con roba del genere. Roba del tipo “Cos’è esattamente l’esistenza?” o “Cosa intendiamo esattamente quando parliamo di movimento?” È un disagio del tutto particolare, che insorge solo quando si raggiunge un certo livello del processo di astrazione (perché l’astrazione procede per livelli, un po’ come gli esponenti o le dimensioni). Diciamo che “uomo” a indicare un qualche uomo specifico è il Livello Uno.“Uomo” a indicare la specie è il Livello Due. Un termine come “umanità” è il Livello Tre: siamo passati a parlare dei criteri astratti perché qualcosa si qualifichi come umano. E così via.
Pensare in questo modo può essere pericoloso, strano. Pensare a qualcosa in termini abbastanza astratti… sicuramente abbiamo provato tutti l’esperienza di pensare a una parola – per esempio “penna” – e continuare a ripeterla dentro di noi fino a farle perdere qualsiasi significato; la bizzarria del fatto stesso di chiamare “penna” un qualche oggetto inizia a imporsi alla nostra coscienza in modo inquietante, come una specie di aura epilettica. Come probabilmente saprete, buona parte di ciò che oggi chiamiamo filosofia analitica si occupa del Livello Tre, o addirittura di domande di Livello Quattro del tipo: epistemologia = “cos’è esattamente la conoscenza?”; metafisica = “quali sono esattamente i rapporti tra costrutti mentali e oggetti reali?” eccetera6.
Può essere che i filosofi e i matematici, che passano un sacco di tempo a pensare (a) astrattamente o (b) ad astrazioni o (c) entrambe le cose, diventino eo ipso predisposti alla malattia mentale. Oppure può essere che le persone predisposte alla malattia mentale siano più inclini a pensare a questo genere di cose. È una questione tipo l’uovo e la gallina. Una cosa però è certa. Il fatto che l’uomo sia per natura curioso e affamato di verità e che voglia più di ogni altra cosa sapere è un mito assoluto7.
Dati determinati significati riconosciuti del verbo “sapere”, esiste di fatto un bel po’ di roba che noi non vogliamo sapere. Lo dimostra l’enorme numero di domande e problemi assolutamente fondamentali a cui non ci piace pensare in termini astratti. Teoria: il terrore e i pericoli del pensiero astratto sono uno dei motivi fondamentali per cui a noi oggi piace essere tanto impegnati e costantemente bombardati da stimoli di ogni tipo. Il pensiero astratto tende a colpire con maggiore frequenza nei momenti di tranquillità.
Tipo la mattina presto, soprattutto se ti svegli poco prima che suoni la sveglia, quando può venirti in mente all’improvviso e senza motivo alcuno che sei uscito dal letto tutto le mattine senza mai mettere minimamente in dubbio che il pavimento ti avrebbe sorretto. Ora, mentre te ne stai lì sdraiato a rimuginare su questo pensiero, ti sembra quantomeno teoricamente possibile che un qualche difetto nella costruzione del pavimento o nella sua integrità molecolare potrebbe farlo curvare, o anche che una roba tipo un’aberrazione del flusso quantico ti ci faccia passare attraverso. Insomma, non ti sembra proprio logicamente impossibile.
Non è che tu abbia davvero paura che il pavimento possa cedere quando deciderai di uscire dal letto. È solo che certi stati d’animo e certe linee di pensiero sono più astratte, e non si concentrano esclusivamente sui bisogni o gli impegni a cui dovrai ottemperare una volta uscito dal letto. Questo è solo un esempio. La domanda astratta su cui te ne stai sdraiato a rimuginare è se è davvero giustificata la fiducia che poni nel pavimento. La risposta iniziale – che è sì – si basa sul fatto che sei uscito dal letto per migliaia di volte (di fatto un bel po’ di più di diecimila volte) e il pavimento ti ha sempre sorretto. È lo stesso motivo per cui sei giustificato nel credere che il sole sorgerà, che tua moglie saprà il tuo nome, che quando provi una data sensazione è perché stai per starnutire eccetera. Perché ti è già successo un sacco di volte. Il principio in gioco è di fatto il solo modo in cui possiamo prevedere tutti i fenomeni che diamo semplicemente per scontati senza doverci pensare.
La maggior parte della vita quotidiana è composta da questi fenomeni, e senza questa fiducia basata sull’esperienza passata diventeremmo tutti pazzi, o quantomeno non saremmo in grado di funzionare perché dovremmo fermarci a deliberare su ogni minima cosa. È un fatto: la vita così come la conosciamo sarebbe impossibile senza questa fiducia. Ma questa fiducia alla fine è veramente giustificata o è solo estremamente comoda? Questo è pensiero astratto, con il suo classico grafico a scala, e ora sei salito di diversi gradini. Non stai più pensando solo al pavimento e al tuo peso, o alla tua fiducia riguardo allo stesso e a quanto questo tipo di fiducia sembri necessario alla sopravvivenza elementare. Ora stai pensando a una qualche regola, legge o principio più generale da cui questa fiducia incondizionata in tutte le sue innumerevoli forme e intensità è di fatto giustificata, anziché essere solo una serie di bizzarri spasmi clonici o riflessi che ti sospingono fino alla fine della giornata. Un segno sicuro del fatto che si tratta di pensiero astratto: non ti sei ancora mosso.Ti senti come se stessi consumando un’energia e uno sforzo tremendi e sei ancora sdraiato, perfettamente immobile.
Avviene tutto solo nella tua mente. È davvero strano, e non stupisce che alla maggior parte della gente non piaccia. Diventa improvvisamente chiaro perché i folli sono tanto spesso rappresentati mentre si tengono la testa tra le mani o mentre la picchiano contro qualcosa. Se avessi seguito i corsi giusti a scuola però potresti ricordarti a questo punto che la regola o il principio che stai cercando di fatto esiste: il suo nome ufficiale è Principio di Induzione. È il precetto fondamentale della scienza moderna. Senza il Principio di Induzione gli esperimenti non potrebbero confermare un’ipotesi e non sarebbe possibile prevedere nulla nell’universo fisico con un qualsiasi grado di fiducia. Non potrebbero esservi leggi naturali né verità scientifiche. Il P.I. afferma che se un fattoè successo volte in passato in circostanze specifiche, siamo giustificati nel credere che le stesse circostanze produrranno nell’occasione (n+1). Il P.I. è totalmente rispettabile e autorevole e sembrerebbe una via d’uscita ben illuminata dal nostro problema.
Almeno fino a quando non ti capita di pensare (come ti può accadere solo in stati d’animo particolarmente astratti o quando hai una quantità enorme di tempo prima che suoni la sveglia) che il P.I. è esso stesso una mera astrazione dall’esperienza… e così ora cos’è esattamente che giustifica la nostra fiducia nel P.I.? Quest’ultimo pensiero può (o anche no) essere accompagnato dal ricordo concreto di diverse settimane trascorse da bambino nella fattoria di certi parenti (segue lunga storia). C’erano quattro polli in una stia di fildiferro e il più intelligente si chiamava Mr. Pollo. Tutte le mattine, quando il bracciante della fattoria arrivava nella stia con un certo sacco di iuta, Mr. Pollo iniziava ad agitarsi e a dare delle beccate di riscaldamento per terra, perché sapeva che era ora di mangiare.
La cosa avveniva tutte le mattine intorno alla stessa ora e Mr. Pollo aveva capito che (uomo+sacco) = cibo, e così stava dando tutto fiducioso le sue beccate di riscaldamento anche in quell’ultima domenica mattina in cui il bracciante all’improvviso allungò una mano, prese Mr. Pollo, gli tirò il collo con un unico movimento elegante, lo ficcò nel sacco di iuta e se lo portò in cucina. I ricordi di questo tipo tendono a restare ben vividi nella memoria, se ti capita di averne. A maggior ragione perché, secondo il Principio di Induzione, Mr. Pollo sembrerebbe aver avuto ragione a non aspettarsi altro che la colazione da quella (n+1)-esima apparizione di uomo+sacco al momento t. La cosa inquietante e davvero fastidiosa è che Mr. Pollo non solo non sospettasse nulla, ma che sembri essere stato perfettamente giustificato nel suo non sospettare nulla.
Trovare una giustificazione di livello superiore per la tua fiducia nel P.I. sembra molto più urgente quando capisci che, senza questa giustificazione, la nostra situazione potrebbe essere fondamentalmente indistinguibile da quella di Mr. Pollo. Ma la conclusione, per quanto astratta, sembra ineludibile: ciò che giustifica la nostra fiducia nel Principio di Induzione è il fatto che ha sempre funzionato benissimo in passato, almeno finora. Ovvero: la nostra unica vera giustificazione del Principio di Induzione è il Principio di Induzione, il che non suona certo rassicurante. La sola via d’uscita dalla paralisi (che potrebbe confinarci a letto per il resto delle nostre vite) derivante da quest’ultima conclusione è darsi a meditazioni ancora più astratte, chiedendosi cosa significhi esattamente “giustificazione” e se sia vero che le sole giustificazioni valide per determinate credenze e principi sono razionali e non-circolari.
Per esempio noi sappiamo che in un dato numero di casi ogni anno delle auto superano la linea di mezzeria, finiscono contromano e vanno a sbattere contro persone che guidavano tranquillamente senza aspettarsi di essere uccise; di conseguenza sappiamo anche, a un qualche livello, che la fiducia che ci consente di guidare sulle strade a doppio senso di percorrenza non è giustificata razionalmente al 100% dalle leggi della probabilità statistica. Eppure in questo caso il concetto di “giustificazione razionale” potrebbe non essere quello esatto. È più pertinente il fatto che se non riesci a credere che la tua auto non verrà investita improvvisamente da un veicolo uscito dal nulla non riuscirai affatto a guidare, e quindi il tuo bisogno/desiderio di poter guidare funziona come una sorta di “giustificazione” della tua fiducia8. Sarebbe meglio a questo punto non iniziare ad analizzare le varie “giustificazioni” putative del tuo bisogno/desiderio di guidare un’auto: a un certo punto capisci che il processo di giustificazione astratta può – almeno in linea di principio – continuare per sempre. La capacità di interrompere una linea di pensiero astratto una volta compreso che questa non ha termine fa parte di ciò che generalmente distingue le persone sane e funzionali (quelle che quando alla fine suona la sveglia possono mettere i piedi per terra senza trepidazione e tuffarsi nella concretezza della loro vita lavorativa quotidiana) da quelle fuori di testa.
1.Halle, una miniera di sale sopra Lipsia, è famosa soprattutto come paese natale di Händel.
2.Lo stesso vale per lo stereotipo antipodale a questo, quello che raffigura i matematici come dei piccoli nerdfissipari in bretelle 
e farfallino. Nell’archetipologia odierna questi due stereotipi sembrano svolgere un ruolo reciproco estremamente interessante.
3. In termini medici moderni risulta abbastanza evidente che G.F.L.P. Cantor soffrisse di disturbi maniaco-depressivi in un’epoca in cui nessuno ne conosceva l’esistenza, e che i suoi cicli polari fossero aggravati dagli stress e dalle delusioni professionali, che Cantor non si fece certo mancare. Naturalmente per una quarta di copertina suona molto meglio parlare del Genio Reso Folle dal Tentativo di Comprendere l’infinito. La verità però è che il lavoro di Cantor e il suo contesto sono tanto interessanti e belli che non vi è alcun bisogno di prometeizzare a ogni costo la vita di quel pover’uomo. La vera ironia sta nel fatto che il lavoro di Cantor ha sovvertito proprio l’idea dell’infinito come zona proibita o come strada verso la follia (un’idea antichissima e potente che ha perseguitato la matematica per + di 2000 anni). Dire che l’infinito ha fatto impazzire Cantor è un po’ come piangere la sconfitta di San Giorgio nella lotta contro il drago: non è solo sbagliato, ma anche insultante.
4. Boyer condivide il vertice della catena alimentare della storia della matematica solo con il professor Morris Kline. Le opere principali di Boyer e Kline sono rispettivamenteStoria della matematica Storia del pensiero matematico (Vol I. Dall’Antichità al Settecento Vol. II Dal Settecento a oggi). Sono entrambi ottimi testi, straordinariamente esaurienti, dai quali attingeremo a man bassa.
5. B. Russell ha un interessante ¶ a questo riguardo sulla matematica delle superiori, che dopo l’aritmetica è generalmente il grande balzo successivo in termini di astrazione:“All’inizio dello studio dell’algebra, anche il ragazzino più intelligente trova generalmente enormi difficoltà. L’uso delle lettere è un mistero il cui unico scopo sembra essere la mistificazione. È quasi impossibile a tutta prima non pensare che ogni lettera stia per un qualche numero specifico che l’insegnante potrebbe rivelare, se solo lo volesse. Il fatto è che nell’algebra viene insegnato per la prima volta alla mente a considerare delle verità generali, verità che non sono tali solo per quanto riguarda questa o quella cosa specifica, ma per tutte le cose di un intero gruppo. È nel potere di comprendere e scoprire tali verità che risiede la supremazia dell’intelletto sull’intero mondo delle cose reali e possibili; e la capacità di affrontare il generale in quanto tale è uno dei doni che un’istruzione matematica dovrebbe elargire”.
6.Secondo la maggior parte delle fonti G.F.L.P.Cantor non è stato solo un matematico, ma ha creato una vera e propria Filosofia dell’Infinito. Una filosofia strana, semireligiosa e – non sorprendentemente – astratta.A un certo punto Cantor cercò di farsi trasferire dalla facoltà di matematica dell’università di Halle a quella di filosofia. La sua richiesta venne respinta. Bisogna però dire che quello non era uno dei suoi periodi più stabili.
7. La fonte di questo pericoloso mito è Aristotele, che per certi aspetti è il cattivo di tutta la nostra Storia (vedi il §2).
8. Un parallelo convincente è il fatto che la maggior parte di noi voli anche sapendo che una certa percentuale di aerei commerciali precipita ogni anno. La cosa però rientra nelle diverse tipologie di sapere contrapposto a “sapere”. C’è poi anche una questione di etichetta, dato che i viaggi aerei sono un’attività pubblica in cui entra in gioco una sorta di fiducia di gruppo. È per questo che informare il vostro vicino di posto della precisa probabilità statistica che il vostro aereo precipiti non è falso ma crudele: state giocando con la delicata infrastruttura psicologica della sua giustificazione per il volo.
***
Tutto, e di più (Storia compatta dell’infinito) è il saggio sulla matematica che lo scrittore americano David Foster Wallace pubblicò nel 2003, e che in Italia venne pubblicato da Codice Edizioni nel 2005. Esce il 4 ottobre in un’edizione riveduta e corretta, alla vigilia della pubblicazione italiana del romanzo postumo “Il re pallido” (Einaudi), di cui il Post pubblica le pagine iniziali. David Foster Wallace si è impiccato il 12 settembre 2008.
la critica di un matematico
I calcoli sbagliati di Foster Wallace
di Piergiorgio Odifreddi, la Repubblica, 05/03/2005
Tutto, e di più, di David Foster
Nonostante l’apparente improbabilità del connubio, matematica e letteratura intrattengono da tempo relazioni feconde.
Ci sono stati, ad esempio, matematici di professione o di formazione che hanno vinto il premio Nobel per la letteratura: da Bertrand Russell nel 1950, a John Coetzee nel 2003. Viceversa, ci sono stati letterati con interessi scientifici che hanno costruito opere grandiose attorno a figure di matematici più o meno immaginari: dall’ Uomo senza qualità di Robert Musil, all’ Incognita di Hermann Broch.
A partire dal 1960, poi, esiste addirittura l’Oulipo, o “Opificio di Letteratura Potenziale”: una confraternita di matematici-letterati e letterati-matematici che si prefigge lo studio delle strutture matematiche usate nella letteratura classica, e la creazione di nuove opere basate su strutture originali.
Dell’Oulipo hanno fatto parte scrittori come Raymond Queneau, Georges Perec e Italo Calvino, che hanno prodotto alcuni dei loro romanzi più riusciti e famosi proprio sulla base di originali impalcature formali di natura matematica.
Per confezionare opere a sfondo matematico, anche di grande successo, non è comunque necessaria una competenza specifica elevata: lo dimostrano casi editoriali come Il mago dei numeri di Hans Magnum Enzensberger, o Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon. In fondo, infatti, ciò che si richiede a uno scrittore che scrive di matematica non sono i contenuti, che non gli appartengono, ma lo stile: ci si aspetta, cioè, che egli compensi l’inevitabile superficialità matematica degli argomenti con la necessaria profondità linguistica dell’esposizione.
Tutto, e di più , l’ultimo libro di David Foster Wallace (già autore dell’ipertrofico romanzo Infinite jest di 1400 pagine) pubblicato da Codice edizioni, costituisce invece un caso a sé.
Da un lato, infatti, l’argomento non è quello elementare che ci si aspetterebbe da un autore che si auto definisce «un tizio che ha sempre detestato qualsiasi corso di matematica seguito nella sua vita», bensì nientemeno che l’avanzata teoria dell’infinito, che sta alla base della matematica moderna.
Dall’altro lato, l’esposizione dichiaratamente “attinge a man bassa” da due classici: la Storia della matematica di Carl Boyer e Il pensiero matematico dall’antichità i giorni nostri di Morris Kline.
Rispetto ai testi citati, sembrano esserci due sole innovazioni letterarie. La prima è un persistente uso di vocaboli quali “incasinare”, “figo”, “spaccare il culo”, “orrido”, “merda”, “cazzeggiare”, evidentemente ritenuti atti a ravvivare l’asettico linguaggio degli originali.
La seconda innovazione è uno snervante abuso di abbreviazioni inutili, quali “p/q/r” per “per quando riguarda”, “P. dell’i.” per “paradossi dell’infinito”, “P. G. C. S. F.” per “problema generale della convergenza della serie di Fourier”, una quarantina delle quali sono elencate nella «Breve ma necessaria premessa»: il risultato sono frasi del tipo «fine della b. i. i. semi-ncvi» (pagina 156), da leggersi “fine della breve interpolazione incastonata semi-nel-caso-vi-interessi”.
Non aiuta, naturalmente, le conoscenze matematiche dei traduttori siano all’altezza di quelle dell’autore, e che essi credano ad esempio che integer significhi “integrale” (un operatore dell’analisi superiore), invece che “intero” (un numero dell’aritmetica elementare), producendo effetti che vanno dal comico di «risulta istruttivo scoprire come di fatto vengano insegnati gli integrali ai bambini» (pagina 10), all’insensato di «gli integrali si calcolano come differenza di due integrali» (pagina 53).
Il risultato è un pastiche , nel senso di pasticciaccio brutto, tutt’altro che «compatto, vivido e comprensibile» come pretenderebbe l’autore, che conclude il libro con un improbabile: «La matematica continua ad alzarsi dal letto».
Il lettore assassinato vi giace invece senza vita.
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L’ultima confessione di David Foster Wallace

9 settembre 2011 • pubblicato da minimaetmoralia
Nel 1996, durante il tuor americano di Infinit Jest, un giornalista del Rolling Stone, David Lipsky, trascorse cinque giorni ininterrotti al fianco diDavid Foster Wallace, in giro per librerie, presentazioni e corsi di scrittura, da uno stato all’altro dell’America, buttando giù appunti per quella che divenne una lunghissima intervista per il giornale. Questa intervista è ora diventata un libro, Come diventare se stessi. David Foster Wallace si racconta (minimum fax – traduzione di Martina Testa), in cui la voce dell’autore ci arriva senza filtri. Stamattina Repubblica regala ai suoi lettori un’anticipazione, un estratto che noi rimbalziamo qui su minima, sicuri di fare anche a voi un graditissimo regalo.
Ti chiedi mai se i libri sono fuori moda? Te ne preoccupi mai? Come dicevamo ieri, erano dieci anni che Rolling Stone non faceva un pezzo su uno scrittore della tua età.
Penso che un tempo i libri fossero una componente importante del dibattito culturale, in una maniera in cui oggi non lo sono più. E il fatto che Rolling Stone, una rivista mainstream piuttosto importante, non ne parli più come una volta dice molto. Non tanto su Rolling Stone. Quanto sull’interesse che la nostra cultura nutre verso i libri.
Per me… lo sai anche tu, quando ci vediamo con altri scrittori questo diventa un grande argomento di conversazione, perché ci mettiamo tutti a lagnarci e a piagnucolare. Parliamo del declino dell’istruzione e del calo della soglia di attenzione della gente, e della responsabilità della tv in tutto questo. Ma per me la domanda interessante è: cos’è che ha fatto sì che i libri diventassero una parte meno importante del dibattito culturale? […] Ecco, secondo me molti di noi si dimenticano che in parte la colpa è dei libri stessi. È che probabilmente, sai… si crea una sorta di circolo vizioso per cui, man mano che gli scrittori perdono importanza a livello commerciale e rispetto alla cultura di massa, cominciano a difendere il proprio ego parlando sempre di più fra loro. E ponendosi come una sorta di conventicola chiusa in se stessa che non ha niente a che fare con i reali, normali lettori.
E quindi no, non credo che i libri siano passati di moda. Credo che debbano trovare modi radicalmente nuovi di svolgere il proprio compito. E penso che noi, per esempio, come generazione, non siamo stati granché bravi in questo.
[…] Ci sono cose che la grande letteratura può fare e che altre forme d’arte non riescono a fare così bene. E la principale mi sembra che sia il fatto di poter saltare al di là del muro dell’identità individuale e descrivere la propria esperienza interiore; e provocare, direi, una sorta di conversazione intima fra due coscienze. E il trucco starà nel trovare il modo per farlo in un’epoca, e per una generazione, che ha un rapporto radicalmente diverso con la comunicazione verbale lineare e prolungata nel tempo. Uno dei motivi per cui il mio libro [Infinite Jest] ha una struttura strana è che quantomeno tenta di imitare, strutturalmente, una sorta di esperienza interiore.
[…] Certe cose influenzano il tipo di esperienze interiori che uno vive. E i sentimenti di cui la letteratura deve parlare. Cioè, una persona di oggi passa molto più tempo di fronte a un monitor. In stanze illuminate dai neon, nei cubicoli degli uffici, a un capo o all’altro di un trasferimento di dati. E cosa significa essere umani, e vivi, ed esercitare la propria umanità in questo genere di scambio? Rispetto a cinquant’anni fa, quando il grosso dell’esperienza di una persona era, che ne so, avere una casa, un giardino, e farsi quindici chilometri in macchina ogni giorno per andare a lavorare in fabbrica. E vivere e morire nella stessa città in cui si nasceva, e sapere com’erano fatte le altre città solo dalle fotografie e da un cinegiornale di tanto in tanto. Insomma, ci sono un’infinità di cose che mi sembrano diverse, e la velocità a cui cambiano è proprio…
Il trucco che dovrà fare la letteratura, per come la vedo io, sarà cercare di creare una ricchezza di dettagli e un linguaggio in grado di mostrare… sarà cercare di creare una mimesi efficace quanto basta per mostrare che in realtà non è cambiato nulla. […] Che ciò che è sempre stato importante è ancora importante. E il nostro compito è capire come fare questa cosa in un mondo la cui consistenza sensoriale è completamente diversa.
E ciò che è importante – mi stai dicendo – è una certa fondamentale componente umana. 
Sì, come dire… per chi vivo io? In che cosa credo, che cosa voglio veramente? Ecco, sono quel genere di domande così profonde che quando uno le fa ad alta voce sembrano banali.
Penso che ogni generazione trovi nuove scuse per spiegare come mai la gente si comporti sostanzialmente da schifo. L’unica costante sono i comportamenti sbagliati. Secondo me la nostra scusa, oggi, sono i media e la tecnologia.
Secondo me il motivo per cui la gente si comporta male è che fa veramente paura stare al mondo ed essere umani, e siamo tutti tanto, tanto spaventati. […] La paura è la condizione di base, e ci sono motivi di tutti i tipi per essere spaventati. Ma […] il nostro compito qui è di imparare a vivere in modo tale da non essere costantemente terrorizzati. E non nella posizione di voler usare qualunque strumento, di usare le persone per tenere lontano quel tipo di terrore. Io la penso così.
Per quanto mi riguarda, come maschio americano, il volto che do a quel terrore è la nascente consapevolezza che nulla è mai abbastanza, mi spiego? Che il piacere non è mai abbastanza, che ogni traguardo raggiunto non è mai abbastanza. Che c’è una sorta di strana insoddisfazione, di vuoto, al cuore del proprio essere, che non si può colmare con qualcosa di esterno. Secondo me funziona così da sempre, fin da quando gli uomini primitivi si picchiavano con le clave. Anche se si può descrivere in mille parole e in mille gerghi culturali diversi. E la sfida che ci si prospetta, in particolare, sta nel fatto che non c’è mai stata così tanta roba, e di qualità tanto alta, proveniente dall’esterno, che sembra tappare provvisoriamente quel buco, o nasconderlo.
Quel vuoto si potrebbe anche tamponare usando strumenti interiori? 
Personalmente, credo che se è tamponabile in qualche modo, lo è solo grazie a degli strumenti interiori. […] Quegli strumenti interiori bisogna guadagnarseli e svilupparli, e hanno a che vedere con… per fare della psicologia spicciola, con l’amore per se stessi. Come dire… se pensi a quelle volte nella vita che hai trattato le persone con un amore e una correttezza straordinari, e te ne sei preso cura in maniera totalmente disinteressata, solo perché avevano un valore come esseri umani… Ecco, la capacità di fare altrettanto con noi stessi. Di trattare noi stessi come tratteremmo un buon amico, un amico prezioso. O un nostro bambino che amiamo più della vita stessa. E penso che sia possibile arrivarci. Penso che in parte il compito che abbiamo sulla terra sia imparare a fare questo.

 

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Edoardo Nesi: Infinite Jest, DFW e il tennis

Edoardo Nesi, traduttore di “Infinite Jest”, racconta il capolavoro di Foster Wallace. Per gentile concessione di © Trax

Mio fratello Federico decise di smettere di giocare a tennis (era seconda categoria a sedici anni, quindi promettentissimo) quando seppe che Aaron Krickstein, di lui più giovane di un anno, era arrivato in semifinale agli Open degli Stati Uniti a Flushing Meadows. Non dette spiegazioni, allora. Si chiuse per qualche anno in un impenetrabile mutismo tennistico, e solo passati i vent’anni (evidentemente una soglia oltre la quale non riteneva neanche lontanamente immaginabile un suo recupero ad alcunchè di competitivo) mi confessò di aver provato una gran vergogna, a quella notizia, di essersi sentito insopportabilmente distante dalla grandezza vera.

Ecco, fatte le debite proporzioni (certo io con i miei romanzi non sono all’altezza delle heisenberghiane traiettorie dei passanti-traccianti di rovescio bimane di mio fratello), sgrullata via così un bel pò di vera, coerente, rispettabile sofferenza, anch’io così – annichilito, pieno di vergogna – mi sono sentito dopo aver finito di leggere Infinite Jest di David Foster Wallace, questo straordinario, titanico Romanzo Americano ancora non-tradotto e forse mai-neanche-in-futuro-tradotto.
Certo potevo far finta di nulla, poichè probabilmente Infinite Jest non lo pubblicherà nessun editore italiano: costeranno troppo sia l’acquisto dei diritti del libro sia, sopratutto, la traduzione – che dovrà essere di un’attenzione sia monacale sia maniacale, e totalmente non-creativa. E poi l’autore è sconosciuto in Italia, uno stravagante mercato letterario di pochi, pochissimi lettori che viene di immaginare raffinati, e invece hanno quasi ignorato i romanzi di Thomas Pynchon e Don De Lillo, autori avvicinabili e avvicinati a Wallace. Avrei potuto star zitto, ma ho pensato che una battaglia così gloriosa e così persa in partenza come questa, chissà quando mi ricapita. Non sarò coraggioso come mio fratello, non smetterò di scrivere, ma batterò i piedi e piagnucolerò forte almeno una volta, questo ho deciso.

Allora, il mio primo incontro con David Foster Wallace (nato nel 1962 a New York, poi cresciuto nell’Illinois rurale), risale all’uscita di Panta “Americani”, comprato per leggere un racconto di Mc Inerney e poi distrattamente leggiucchiato fino ad arrivare a Per sempre lassù (Forever Overhead), un racconto di DFW tradotto – guarda caso – da Edoardo Albinati, uno degli scrittori italiani che amo di più. Sin dalla prima pagina mi parve che Per sempre lassù, scritto nel 1992, fosse il Racconto Degli Anni 90, straordinariamente capace com’era di catturare – in diretta – una specie di “sfiorato” zeitgeist di quegli anni inafferrabili, e di farlo senza volere. Per parlar meglio, pensai che Wallace – con il suo tredicenne deciso a tentare il suo primo, necessario tuffo dall’ alto trampolino di una piscina pubblica – avesse catturato il brancolare e il candido disinteresse, l’ apatia e il furore inespresso e inesprimibile, la profonda, necessariamente nordamericana ragione dietro i Nirvana e gli Smashing Pumpkins. Finisce con un “ciao” subito prima del tuffo, quel racconto così naturale da apparire involontario, cresciuto da sè.

Poi di David Foster Wallace non seppi più nulla fino a questa estate, quando uscì in America Infinite Jest, un romanzo di quasi mille pagine, centocinquanta delle quali sono note al testo, scritto in un americano estremamente corretto ma anche capace di ricevere e subito incorporare informazioni provenienti da qualsiasi livello di altezza letteraria, virtuosisticamente capace di muoversi tra la prima e la terza persona, tra passato e presente, di rallentare fino a fermarsi e poi accelerare di colpo, di avvicinarsi al protagonista (ce ne sono tanti, tantissimi) fino a metterlo sotto la lente di un microscopio elettronico, per poi allontanarsi con la velocità di un’inquadratura cinematografica realizzata con un dolly rapidissimo, un “totale” che va, nel frattempo a scoprire il mondo.

Che è un mondo sversato, slabbrato, proiettato senza alcun dolore in un futuro prossimo in cui anche gli anni saranno sponsorizzati (anno del Depend Adult Undergarment), e gli Stati Uniti e il Canada si saranno fusi in una superentità dal nome di ONAN.

Infinite Jest è un romanzo che tratta anche di droga, di tennis – il luogo del romanzo è una scuola di tennis per giovani promesse fondata dall’ahimè morto James Incandenza, regista sperimentale (assolutamente strepitosa la lunghissima nota, saranno almeno dieci pagine scritte fitte, in cui sono analizzati e descritti, uno per uno, tutti i suoi cortometraggi) – di indipendenza del Quebec, di cinema. Infinite Jest è per l’appunto il titolo del film di Incandenza capace di far precipitare chiunque lo guardi in una specie di ipnotica beatitudine. Ma ogni mio tentativo di descrizione non vale a rendere l’idea della straordinaria ricchezza di questo libro gigantesco, e sopratutto della qualità della scrittura di David Foster Wallace, che affronta con impeto e understatement il gigantesco compito di immaginare un futuro prossimo che non somigli a quello immaginato da nessun altro, e ci riesce ricorrendo non a un film, un disco, un quadro, un video o una scultura, ma – guarda un po’ – a un romanzo.

Scarrocciando su e giù per la Rete scopro poi che Wallace ha scritto anche un romanzo giovanile The Broom of the System, una raccolta di racconti Girl with Curious Hair, un libro di saggi A supposedly fun thing I will never do again; che il “Times” di New York lo ha indicato come secondo libro dell’anno, Infinite Jest, dietro al nuovo romanzo di Salman Rushdie; che le presentazioni di Infinite Jest nelle più illustri librerie d’ America (Wordsworth a Harvard Square, Rizzoli West Broadway a New York, City Lights a San Francisco) erano affollate di ragazzi/e entusiasti/e; che DFW stesso era, da giovane, una promessa del tennis americano. Ciao.

Edoardo Nesi

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di Martina Testa
Quella di pubblicare Come diventare se stessi di David Lipsky non è stata una scelta facile. Il libro è la trascrizione di una serie di conversazioni fatte dall’autore con David Foster Wallace all’indomani dell’uscita di Infinite Jest, nel 1996, in vista della pubblicazione di un lungo profilo di Wallace su Rolling Stone; il profilo non è mai uscito, ma a distanza di quindici anni, e dopo la morte di Wallace, Lipsky ha deciso di raccogliere il contenuto di quelle conversazioni in un volume. Com’è ovvio, quindi, il suo interlocutore non ha avuto nessuna voce in capitolo sulla selezione del materiale. Se è vero che in queste pagine “David Foster Wallace si racconta”, come recita il sottotitolo, è vero anche che non saprà mai di averlo fatto in questa forma. Se fosse ancora vivo, forse Come diventare se stessi sarebbe un libro molto diverso (chissà se Wallace avrebbe autorizzato la pubblicazione delle pagine in cui racconta le sue esperienze di droga, il suo rapporto con le donne e altri dettagli della sua vita privata); o forse non sarebbe uscito affatto.
Il dilemma, quindi, è stato: rendiamo un buon servizio all’autore, traducendo un “suo” testo che lui non ha mai avuto modo di leggere e approvare, o commettiamo un abuso? Ci abbiamo pensato a lungo. Anche dopo esserci premurati di mettere a parte di questi dubbi l’agente di Wallace – che ci ha assicurato che il libro usciva con il proprio benestare e quello della famiglia – la sensazione di muoverci su un terreno eticamente insidioso non ci abbandonava del tutto.
Ma alla fine ci siamo convinti. A convincerci sono state le molte pagine del libro che, ne eravamo certi, David Foster Wallace non avrebbe rinnegato. Quelle in cui parla del senso del suo lavoro, del valore della letteratura nel nostro tempo, del rapporto ambiguo con il successo, dello smarrimento esistenziale di un’intera generazione e di come superarlo… Pagine intense, a volte profetiche, spesso dolorose, che sono il dono più grande di questo libro ai suoi lettori, e che vorrei lasciare a ciascuno il piacere di scoprire da sé.
Qui preferisco invece presentare cinque piccoli aneddoti personali che Wallace racconta nel libro, e che mi hanno commossa perché hanno a che fare con l’amore per i libri, il mestiere di scriverli, e il mestiere di pubblicarli e condividerli – che è anche il mio.

Come si leggeva nella famiglia di Wallace

Wallace, come credo molti dei suoi fan, è cresciuto in una casa piena di libri, che i genitori lo incoraggiavano a consumare a ritmo costante e forse persino eccessivo (il padre lo sottoponeva a lunghe letture ad alta voce di passi di Moby Dick). Ma al di là della sollecitudine di due intellettuali per la formazione culturale del figlio c’è un dettaglio straordinario che dà al quadro una luce diversa, e viene da pensare che ci sia proprio questo all’origine dell’idea di Wallace per cui la magia della letteratura consiste nel mettere in comunicazione le persone, sgominandone almeno temporaneamente la solitudine. È un particolare rubato all’intimità dei suoi genitori, e ci si sentirebbe quasi in imbarazzo nel venirne messi a parte, se non fosse per la sbalorditiva bellezza di questa immagine:Ricordo che i miei si leggevano l’Ulisse ad alta voce, l’uno con l’altra, a letto: con un atteggiamento fichissimo, tenendosi per mano, tutti e due animati da quest’amore davvero feroce per qualcosa.

Quale copertina avrebbe voluto Wallace per Infinite Jest

Gran parte dei lettori – italiani e non – di Wallace sono abituati a vedere il suo libro più famoso con la stessa veste grafica: in copertina, un cielo con delle nuvole. L’illustrazione della prima edizione è stata replicata molte volte, con piccole variazioni sul tema, sia dagli editori angloamericani che da quelli italiani. Ma a Lipsky Wallace rivela che quell’illustrazione non piaceva. Gli ricordava troppo la brochure delle procedure di sicurezza dei voli American Airlines.

E invece cosa ci avresti voluto?
[…] C’è una foto stupenda di Fritz Lang che dirige Metropolis. Ce l’hai presente? Quella con lui in piedi e, non so, mille uomini con la testa rasata messi in fila, a falangi, e lui fermo lì con un megafono in mano? […] Ma Michael ha detto che era troppo affollata e troppo, tipo, concettuale, che richiedeva troppo impegno mentale da parte del pubblico…Come non dare ragione, da editor, a Michael Pietsch? L’immagine amata da Wallace è senza dubbio molto meno “facile” e immediata di quella effettivamente scelta per la copertina. E al tempo stesso, come negare che la foto di Fritz Lang, con la sua involontaria quanto sinistra allusione al totalitarismo dell’industria dell’intrattenimento, sia molto più vicina ai temi e alle atmosfere di Infinite Jest? Una copertina diversa avrebbe influito sulle sorti del libro? Per quegli scrittori e quegli editori che ogni giorno si trovano a combattere la classica battaglia fra “arte” e “mercato”, la domanda resta perennemente aperta.
Come Wallace umiliò pubblicamente una star di Hollywood

Durante un reading di Infinite Jest alla libreria Barnes & Noble di Union Square, Wallace scorge in mezzo al pubblico Ethan Hawke. Hawke è, in quel momento, reduce dal successo di Giovani, carini e disoccupati Prima dell’alba, che lo hanno consacrato come sex symbol della Generazione X. Non sappiamo perché fosse al reading di Wallace, se per caso, per moda, per reale interesse. Sta di fatto che Wallace lo nota eè successo questo, che ero molto nervoso, e mi è scappata una tipica scorreggia mentale. Un flash di un nanosecondo. Una cosa che ti esce di bocca e subito vorresti riacchiapparla. C’era tutto un pezzo sugli «attori di scarso successo che nei decenni precedenti sarebbero apparsi nelle televendite». E ci ho aggiunto «e nei film di Richard Linklater». Pensando che lui non l’avrebbe trovata una frase ostile.
Ma stando a Charis [Conn, editor di Harper’s], lui si è incazzato davvero. E allora ho pensato: «Oddio, poveraccio. Non può neanche mettersi all’ultima fila, non voleva farsi notare, voleva soltanto andare a sentire un reading». E io, per via del nervosismo, penso bene di lanciargli questa frecciatina condiscendente: mi sono sentito proprio un coglione. Un vero coglione. E se puoi, mi piacerebbe che me lo facessi dire, nel pezzo, che mi sono sentito come un totale coglione».

È raro, in un’intervista, sentire uno scrittore mettersi a nudo così. Confessare di aver provato un istinto basso e umano – il desiderio di rivalsa dell’intellettuale secchione sull’attore belloccio – confessare di averlo soddisfatto con goffaggine, confessare di essersene pentito e chiedere pubblicamente scusa. Chi crede che il grande dono di Wallace fosse l’ironia sbaglia; pochi come lui percepivano la pericolosità dell’ironia usata senza compassione.

Come Wallace si illuse di fare fesso il suo editor

Il manoscritto originario di Infinite Jest era di una lunghezza spropositata e preoccupante. Al momento di inviarlo al suo editor, Wallace ricorre a un trucchetto infantile.

Lo stampai a corpo nove, interlinea singola. E mi pare che così vennero, non so, 1070 pagine: in pratica, la lunghezza del libro finito.
Ma lui mi richiamò, e quella è stata l’unica volta che si sia mai davvero arrabbiato con me. Perché, mi disse, aveva cercato di leggere le prime cinquanta pagine e gli facevano male gli occhi, e cosa mi era saltato in testa, pensavo davvero che non si sarebbe accorto di quanto era lungo se lo stampavo così…

Pietsch obbliga Wallace a ristampare il manoscritto secondo la formattazione standard. Ne viene fuori un mastodonte: 1700 pagine. Seguono mesi di editing. Pietsch gli scrive una lettera di commento lunga 25 pagine. Wallace ne taglia 350. Pietsch fa una seconda lettura. I due si scambiano ore di telefonate. Vengono eliminate altre 100 pagine. Il libro raggiunge la sua forma attuale, ed ecco il giudizio finale dell’autore sul lavoro del suo editor:

Mi sono sentito proprio, non solo riconoscente verso di lui, ma intelligente io stesso.

Non c’è esempio migliore da portare a chi ritiene che l’editing sia una forma di arbitraria manipolazione della creatività altrui. Un buon editor non concede scorciatoie autoindulgenti, costringe l’autore a misurarsi onestamente con il testo, e ne distilla così le doti migliori: chi all’inizio del processo si credeva più furbo, alla fine si scopre più intelligente.

Come Wallace capì di avere la stoffa dello scrittore

È facile immaginare che un esordiente scopra il proprio talento per la scrittura grazie a un racconto (probabilmente autobiografico) lodato dagli amici, dagli insegnanti, da un altro scrittore; così come è facile immaginare che la scrittura sia questione di ispirazione, fantasia, creatività. E lo è, in effetti; ma è almeno altrettanto questione di orecchio, attenzione al dettaglio, tecnica e disciplina. David Foster Wallace, ad esempio, ha le prime avvisaglie di una delle sue più grandi doti di scrittore quando capisce di essere bravo a falsificare tesine universitarie:

Be’, avevo scritto della roba… all’università avevo scritto un paio di tesine per altra gente. Perché c’erano un sacco di ragazzi che… non era male, in effetti.
Ti pagavano per scrivergli le tesine?
Be’, non la metterei in maniera così brutale. Diciamo che c’erano sistemi di remunerazione piuttosto sofisticati. Ma… mi ricordo che una delle cose interessanti era leggere due o tre delle tesine scritte in precedenza da una certa persona per imparare, sai, che suono aveva la sua scrittura.

E mi ricordo che all’epoca lo capii: «Cavolo, sono proprio bravo a fare questa cosa. Sono uno strano tipo di falsario. Cioè, posso imitare lo stile di chiunque».

 

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