La mamma Alina Marazzi
Un’ora sola ti vorrei: intervista ad Alina Marazzi
di Pietro Roberto Goisis
Questa intervista raccoglie diversi momenti nei quali mi sono incontrato con la regista. Virtualmente, nel sito web dedicato al film; di persona, dopo una proiezione del suo film, durante una presentazione ed un dibattito sullo stesso organizzato al Centro Milanese di Psicoanalisi “Cesare Musatti” ed altro ancora, ma soprattutto si basa su di una conversazione che si è svolta nella sua casa milanese, un tardo pomeriggio nel mese di novembre del 2003, che si è resa possibile in virtù della sua disponibilità e generosità, ma anche grazie ad un’aspirante regista di un documentario sulla Sacra Rota (che si è occupata della piccola Teresa), ad un piccolo registratore portatile (recuperato all’ultimo momento in loco) e ad una vecchia cassetta audio di un misterioso gruppo rock italiano (che si è prestato a farsi sovraincidere l’intervista). Il dialogo si svolge con l’uso della seconda persona singolare, modalità utilizzata nelle nostre conversazioni da quando Alina ha risposto con spontanea naturalezza ad una mia mail di vari mesi fa.
L’intervista è preceduta da una breve scheda sul film e sulla regista.
Per ulteriori informazioni sul film e sulle proiezioni: http://www.unorasola.it/
Il film: Un’ora sola ti vorrei (2002) montaggio: Ilaria Fraioli (a.m.c.)
immagini d’archivio (1926-1972): Ulrico Hoepli
montaggio del suono: Benni Atria (a.i.t.s.)
suono: Remo Ugolinelli e Alessandro Feletti
una produzione: Venerdì e Bartlebyfilm in coproduzione con RTSI Televisione Svizzera con la partecipazione di TELE+
prodotto da: Alina Marazzi, Gianfilippo Pedote, Giuseppe Piccioni, Francesco Virga
Durata: 55 min
Colore e bianco e nero
Formato: Beta digitale da originali 16 mm e 8 mm
Alcune parole di Alina Marazzi sul film, tratte dal sito www.unorasola.it
“Mia madre è nata nel 1938 ed è morta nel 1972, quando io avevo 7 anni. Non ho molti ricordi di lei, ma ho sempre saputo che in un armadio in casa dei miei nonni era rinchiusa tutta la memoria visiva della nostra famiglia. In questo armadio sono conservate delle scatole di vecchie pellicole, filmati girati dal padre di mia madre tra il 1926 e gli anni ’80, con una cinepresa amatoriale 16 mm.
È solo qualche anno fa che ho avuto il coraggio di cominciare a guardare questi filmati, con grande curiosità ed emozione, soprattutto quelli segnati con una “L”, l’iniziale del nome di mia madre: Liseli.
Il film inizia con la registrazione sonora di un disco 45 giri con la vera voce di mia madre che mi parla; il resto del racconto intreccia la lettura di lettere e diari di mia madre e delle cartelle cliniche delle case di cura in cui mia madre ha trascorso lunghi periodi. Attraverso questi testi è possibile ricostruire per intero la sua vita, nei suoi vari periodi: l’adolescenza, l’amore, i figli, la malattia, il disagio esistenziale.
Il film è la ricostruzione della mia personale ricerca del volto di mia madre, attraverso il montaggio dei filmati girati da mio nonno. Un tentativo di ridarle vita anche solo sullo schermo, un modo per celebrarla ricordandola. Per quasi tutta la mia vita il nome di mia madre è stato ignorato, evitato, nascosto. Il suo volto anche. Ho la fortuna invece di poterla vedere muoversi, ridere, correre…. ”
PREMI RICEVUTI
Agosto 2002
55th Locarno International Film Festival: “Menzione speciale della giuria” Novembre 2002
20° Torino Film Festival: “Miglior Documentario italiano”
43° Festival dei Popoli di Firenze: “Menzione speciale” Dicembre 2002
7° Maremma Doc Festival Pitigliano: “Menzione speciale” Febbraio 2003
Duel: “Premio DUEL 2002” Aprile 2003
8¼ FESTIVAL INTERNACIONAL DE DOCUMENTARIOS “Menzione speciale” Giugno 2003
USA 6th Annual Newport International Film Festival Awards
CLAIBORNE PELL AWARD
Luglio 2003
10° Rassegna del Documentario Premio Libero Bizzarri
Premio Rivista del Cinematografo
Ottobre 2003
Grecia 6th Kalamata International Documenatary Film Festival
Premio “Silver Olive”
La regista: Alina Marazzi ha curato la regia di documentari televisivi a carattere sociale. Lavora come aiuto regista per il cinema; ha collaborato con Giuseppe Piccioni, Studio Azzurro, Piergiorgio Gay, Giovanni Maderna, Giuseppe Bertolucci, Godfrey Reggio.
Filmografia (documentari):
L’America me l’immaginavo, storie di emigrazione dall’isola siciliana di Marettimo (1991), Il declino di Milano, un ritratto della “capitale morale” alla vigilia di Tangentopoli (1992), Mediterraneo, il mare industrializzato, sulla relazione tra inquinamento ambientale e mondo del lavoro (1993), Ragazzi dentro, il mondo visto dai ragazzi reclusi nelle carceri minorili italiane (1997), Il sogno tradito, i bambini di strada raccontano la Romania a dieci anni dalla caduta di Ceausescu (1999), Un’ora sola ti vorrei (2002)
L’intervista
Le domande che avrei da fare sono innumerevoli, così come gli stimoli che il film mi ha dato. Nel fare una necessaria selezione ho cercato di scegliere quelle più attinenti al nostro sito e forse quelle che meno ho letto o sentito fare.
Sinceramente devo dire che non ha attivato quasi nulla. Io, in realtà, speravo che facesse in modo di aprire delle porticine tenute gelosamente chiuse a chiave. In pratica, no. Le immagini non hanno prodotto nulla. La prima volta che le ho viste mi ha molto colpito lo sguardo di mia madre, come se fosse qualcosa di familiare, qualcosa che io riconoscevo profondamente, intimamente. Ma io non mi ricordavo proprio nulla della sua faccia. Ricordavo una figura alta, bionda, un po’ ragazzona. Lei con noi, no. Non che facesse con noi delle cose di tipo materno, tipo vestirci, fare la cartella insieme, portarci a scuola, ecc. Avevo due o tre altri ricordi, ma molto poco. I filmati non mi hanno attivato null’altro. Io pensavo, forse speravo, che poi, guardando e riguardando e facendo mio questo percorso, qualcosa si attivasse… invece no. Non per quanto riguarda i ricordi. C’è da dire, però, che lei ora è una presenza molto forte dentro di me. Laddove il ricordo non c’era e non c’è, adesso mi vengono in mente delle immagini del film. Succede spesso: i primi piani, gli sguardi, le parole…è strano questo, perché nel film sono io che parlo. Però il lungo lavoro sulle tante parole che erano in realtà le sue, prima lette, poi trascritte, poi registrate, poi scelte, poi ascoltate infinite volte, ora sono diventate altre cose rispetto alla mia voce. E, così, in vari momenti durante la gravidanza, ad esempio, o quando Teresa (la bimba che Alina ha avuto circa un anno dopo il debutto del film) era piccola, nei momenti di sconforto, di abbattimento, nei quali uno vorrebbe un sostegno, una presenza…una mamma, un abbraccio materno, ecco, lì mi sono venute in mente e mi vengono in mente dei primi piani suoi nel film. E sono immagini che ora mi fanno molta compagnia. Forse è un passaggio ulteriore rispetto a qualcosa che mi è successo durante la lavorazione del film, quando, mano a mano che conoscevo aspetti suoi e della sua storia, io, che in genere non mi ricordo i sogni che faccio, ho fissato ben bene nella memoria dei sogni dove lei era presente. Ora, forse, non sono più solo sogni, ma anche immagini.
Hai spesso raccontato di non avere avuto quasi nessun ricordo di tua madre prima della visione dei filmini girati e conservati a casa del nonno. Vorrei sapere cosa è successo dei tuoi ricordi dopo la visione dei filmini, dopo aver fatto il film e dopo ogni volta che lo vedi.
Dalle immagini vorrei ora passare al sonoro del film, che è stato un dare parola e suono alle immagini. È stato come un dar voce alla mamma. Cosa che avviene con la tua voce.
È chiaro, per noi, che questo rimanda a dei meccanismi che hanno a che fare con l’ identificazione. Puoi dirci qualcosa in più su questo tema?
Nel progetto originale la voce della mamma doveva essere quella di una sua amica d’infanzia, Sonia, che fa l’attrice. Poi le prove fatte non ci hanno convinto e così abbiamo usato la mia. Varie volte, sia nella fase di lavorazione, sia nelle proiezioni, ho trovato persone che avevano conosciuto mia madre che mi hanno chiesto come avessi fatto ad elaborare il sonoro per poter realizzare questo fenomeno. Sembra che la mia voce risulti uguale alla sua nel timbro e nella cadenza e così via. Come se si trattasse di una forma di allucinazione acustica di chi ascoltava e sapeva. Io non recitavo durante la lettura, ma di certo è stato un fenomeno forte. È normale che i figli abbiano delle cose dei genitori, ma in questo caso, vista anche la distanza…Certamente c’è stato un fortissimo movimento di identificazione. Nella lavorazione c’è stata anche questa coincidenza del fatto che io stavo facendo questo film alla stessa età nella quale mia madre è morta. È stato anche un prendersi cura di lei, all’inizio. Poi un confronto alla pari. È stato bello, ma anche doloroso stare lì. Molto spesso ero da sola in sala di montaggio e mi ritrovavo a piangere. Sfogarmi era necessario, poi con la montatrice ci lavoravo, anche per cercare di capire questa donna che era stata mia madre.
C’è una domanda ed una riflessione che sento in qualche modo fondamentale e che mi ha fatto amare, tra le altre ragioni, il tuo film. Io credo che ci sia un’analogia tra il lavoro che tu hai fatto e la nostra professione di psicoanalisti. Ciò che noi cerchiamo di fare, secondo me, è di aiutare le persone ad entrare in contatto con la propria storia, i propri ricordi, gli stati d’animo, le sensazioni, ecc. Lo scopo è far sì che tutto ciò diventi davvero un qualcosa di nuovo, non un sostituto, ma un’integrazione, un’elaborazione, attraverso un rimaneggiamento del proprio mondo interno. In questo senso credo che ciò che hai fatto tu nel il tuo film sia stata una cosa analoga. Allora, si può dire che la realizzazione di questo film sia stata anche una specie di autocura?
Senz’altro. Mi riconosco nella tua descrizione. E se penso a quello che è stato quel periodo, è stato sicuramente un processo di trasformazione incredibile, molto, molto intenso emotivamente, molto ricco (vedi i sogni). Avevo molta energia, molta carica. Stavo dieci ore in sala di montaggio e poi, tornata a casa, stavo lì ore a trascrivere. Il mio cervello era iperstimolato, iperattivo. Certamente è stato un percorso di autocura. Prima di fare questo film non ero in grado né di nominarla, né di pensare al fatto che avesse deciso di farla finita in quel modo. Da bambina poi, proprio niente. Se mi chiedevano “dove è tua madre?”, scena muta, blocco totale, mal di pancia, imbarazzo tremendo, ecc. E così fin verso i 20 anni. C’era un’incapacità a trovare le parole. Verso i 27 anni ho parlato con la sua amica, Sonia. Ho letto le sue lettere e lì ho scoperto la persona. Poi ho conosciuto le lettere ed i diari che conservava mio padre: è stato un impatto ancora più forte. Quello è stato il primo passo per un percorso che ho sempre saputo necessario e che dovevo risolvere. I tempi poi non li decide sicuramente uno a tavolino. È arrivato al momento giusto ed in modo sorprendentemente creativo. Io già usavo quel mezzo di comunicazione e di lavoro. Sapevo dei filmini, ma non che fossero così ricchi e di qualità. L’approccio è stato molto timoroso e con una grande paura di guardare in faccia a mia madre. E, in effetti, i primi contatti con il suo sguardo e con lei bambina sono stati devastanti…Sì, certamente è stato curativo. Mi sono riappropriata di una parte di lei. Che ora è mia!
Mi sono sempre chiesto, anche, quale sia stata la reazione dei tuoi parenti?
All’inizio temevo la reazione di chiusura della famiglia. In realtà sono rimasti tutti, ognuno a modo suo, sconvolti, ma contenti di avere saputo e scoperto delle cose della famiglia. Mio zio, il fratello della mamma, è appassionatissimo, segue il film ovunque venga proiettato. Mi è molto grato. Credo si fosse privato del fatto di ricordare e celebrare in maniera positiva. L’ora del film è per lui una gioia, nella quale ogni volta scopre cose nuove, volti dimenticati. Mio fratello non ne vuole parlare. È contento, ma dice che è una cosa mia. Mio padre mi ha accompagnato nel percorso del film. A film finito l’ha molto amato. Poi si è ritirato e non lo vede più. Io ho pensato che ora che io ho risolto questo sospeso, che mi sono riappropriata di cose che aveva e custodiva lui, che ora si sia sentito un po’ deprivato di un ricordo che aveva gestito lui da solo.
C’è anche il fatto che una vicenda privata sia diventata pubblica…
Inaspettatamente, devo dire… così come inaspettata è stata la reazione del pubblico, come è stato accolto. Mi è un po’ esploso tra le mani. Continuo a ricevere lettere e commenti di persone che si riconoscono nel film per i più svariati motivi. Rimangono tutti molto presi e toccati. Non me l’aspettavo proprio. Anche quando viene proiettato in paesi diversi e con lingue diverse c’è questa reazione.
Penso che dipenda da una sorta di universalità di linguaggio che è presente nel film. Che ci siano reazioni così intense può dipendere dal fatto che ci sono possibilità di lettura e di identificazione da molteplici punti di vista. Ognuno coglie cose diverse, ma ognuno ne è toccato.
A questo proposito, so che ti capita di incontrare alle proiezioni persone che avevano conosciuto la mamma. Che sensazioni ti procurano questi incontri?
Un certo fastidio per gli aneddoti (“ma perché non vi siete fatti vivi prima?”, mi verrebbe da dir loro) ed una commozione per i ricordi, come è successo al Centro Milanese di Psicoanalisi dove ho avvertito molto affetto intorno a me. Quella è stata per me forse una delle proiezioni più emozionanti, ma meno faticose, perché ho dovuto parlare poco. Hanno parlato così tanto i presenti, lasciando anche trasparire oltre ai loro ricordi anche le loro emozioni, come se anche loro non avessero risolto la perdita, anche se magari sono persone che avrebbero pure avuto gli strumenti per farlo. Ho però notato come il film sia importante per ognuna delle persone che lo vedono: dà ed insegna qualcosa. Così come per me è importante e diversa ogni proiezione alla quale assisto in contesti molto differenti.
C’è rabbia o tristezza, ora, o maggiore serenità?
Rabbia no. L’ho trovata spesso negli spettatori, anche io l’avevo, ora no, c’è una visione più fatalista. C’è meno tristezza di prima, ma tanta nostalgia. Sono più padrona di me stessa, non mi sento più un caso, senza sapere da dove arrivo. La scoperta di essere stata una figlia amata e voluta mi dà molto. Anche nelle proiezioni…una delle più particolari è stata in un gruppo di auto-aiuto sui disturbi bipolari, non c’era rabbia, ma erano confortati dal film. Ognuno si faceva molte domande dal punto di vista dell’essere genitore…la reazione delle madri, in genere, è di essere colpite ed orgogliose del lavoro di una figlia sulla propria madre…
In questo senso il film può essere riparatore anche per altri…
Già!
E poi, per uno come me che traffica su internet… è affascinante che ci sia il sito del film…
È uno spazio ed una vita ulteriore per il film. È stata un’idea del marito della montatrice che si occupa di queste cose. Eravamo pronti per Locarno, si voleva lanciare e far conoscere il film, le proiezioni…doveva star lì qualche mese, un anno ed invece l’abbiamo rinnovato. Ci sono tante cose, tanti spazi, altri ne vorremmo, foto, ecc. C’è il libro degli ospiti che è senza filtro. C’è anche l’idea di fare un libro con altre immagini ed altri testi. Il sito può essere una via di mezzo. Non ci avevo pensato prima, ma mi piace molto questa cosa, che ci sia un posto nella rete.
Uno spazio transizionale, diremmo noi…
Infatti la casella per scrivermi l’ho chiamata Liseli, con il suo nome.
A cavallo tra lei, il film, te, i ricordi…
Si, uno può starci a riflettere in qualunque momento del giorno e della notte…
Un’ultima domanda Alina: spesso mi chiedo come sarà il dopo. Come sarà difficile fare qualcosa dopo il successo di questo film, quali ansie ti procuri la cosa…
In questo momento non lo so. Il futuro ed il prossimo film, come sarà o se verrà, non mi preoccupa adesso. Mi basta avere fatto questo!
Un’ora sola ti vorrei
Amore e morte nella famiglia Hoepli
Un’ora sola, o poco meno. Un gesto liberatorio, quello di una figlia che cerca di comprendere perché la madre si sia tolta la vita all’età di trentatré anni. Per farlo apre l’armadio del nonno e scartabella tra vecchi filmati in Super 8, diari, lettere, fotografie. È il lavoro della documentarista e aiuto-regista Alina Marazzi e il suo racconto per immagini ripercorre la vita di sua madre, Liseli Hoepli, figlia di Ulrico Hoepli, noto editore e proprietario dell’omonima libreria di Milano. Il documentario, arricchito dal magistrale montaggio di Ilaria Fraioli, parte con una licenza poetica, una lettera mai scritta di Liseli: «In tutto questo tempo nessuno ti ha mai parlato di me. Di chi ero, di come ho vissuto, di come me ne sono andata. Voglio raccontarti la mia storia adesso che è passato così tanto tempo da quando sono morta».
Una scarica di sentimenti investe lo spettatore che ritrova una famiglia, divisa dalla vita e dalla morte, finalmente riunita dalla magia dell’arte, dal lavoro inconsapevole del nonno, dalla presenza scenica e innocente della madre e dalla selezione appassionata e commossa della figlia che afferma: «Il primo volto che vediamo quando veniamo al mondo è quello di nostra madre. Il film è la ricostruzione della mia personale ricerca del volto di mia madre, un tentativo di ridarle vita anche se solo sullo schermo. Ho la fortuna di poterla vedere muoversi, ridere, correre, nascere, imparare a camminare, sposarsi…». Peccato che andare a trovare questo film in una sala cinematografica sia impresa accomunabile alla meticolosa ricerca della sua regista; così come My Architect, dedicato all’architetto Louis Kahn e girato dal figlio Nathaniel, Un’ora sola ti vorrei resta un’operazione cinematografica d’élite, la cui importanza è già stata riconosciuta con una decina di premi in tutto il mondo.
Alessio Sperati