Intervista alla dott.ssa Dal Palù

BARBARA BERTONCINI DELLA RIVISTA “Una città” INTERVISTA LA DOTT.SSA DAL PALÙ RENATA

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Quando va via il sonno…

Una malattia, la depressione bipolare, che insorge in età giovanile e può essere incompatibile con la vita. L’importanza di individuare la dose minima efficace e il dramma, anche economico, di tante famiglie, lasciate sole a gestire un disturbo che nella forma grave colpisce il 3% della popolazione. Intervista a Renata Dal Palù.

Renata Dal Palù, cardiologa, ha dato vita, assieme al marito, a Minerva, un’associazione di volontariato che affianca le famiglie dei malati di disturbo bipolare, aiutandole nell’informazione e indirizzandole verso i centri di cura adeguati.

Il tuo impegno accanto ai familiari di persone con disturbo bipolare nasce da una vicenda personale. Puoi raccontare?
La mia esperienza è decisamente traumatizzante. Sia io che mio marito siamo medici. Mio marito all’epoca era direttore di una clinica universitaria (Clinica Medica 1ª). Nella stessa clinica lavoravo anch’io come aiuto corresponsabile: era una medicina al top, d’avanguardia.
Quando mio figlio si è ammalato ci siamo imbattuti in una disciplina, la psichiatria, di cui non sapevamo nulla.
Quello che ci ha più colpito è stato il fatto di trovarci di fronte a persone che non sembravano nostri colleghi, ma piuttosto psicologi, sociologi, filosofi. Questo ci ha molto disorientato. Noi chiedevamo una diagnosi e loro non volevano o non sapevano farla. Chiedevamo per quale ragione venivano dati i vari farmaci e le risposte erano evasive e insoddisfacenti. Tra l’altro, ci siamo resi conto subito, nel corso del primo ricovero di mio figlio, che i farmaci usati in psichiatria possono provocare effetti collaterali molto importanti, per esempio sbalzi pressori , blocchi della peristalsi intestinale, ritenzione urinaria etc.
In ogni reparto, questi sono dati controllati ogni giorno, cioè quotidianamente al paziente viene misuratala pressione arteriosa ,la diuresi, si prende il polso, si chiede com’è l’alvo, etc.
Tutto questo non veniva fatto, anche se mio figlio era trattato con farmaci potenti. Mi sono rivolta ad un’infermiera e ho chiesto: “Scusi, ha misurato la pressione?”. Lei si è molto stupita che io interferissi sul suo operato. Comunque ho preso il mio apparecchio della PA e ho misurato la pressione a mio figlio: era 220 su 120 mmHg, cioè un livello pericoloso: la frequenza cardiaca era elevata ; mio figlio non ragionava più, gli avevano dato tutto e il contrario di tutto, neurolettici, che abbassano l’umore e, contemporaneamente, antidepressivi, che lo alzano, entrambi i farmaci a dosi elevate, e senza controllare i parametri vitali.
Esasperata, mi sono rivolta al primario e gli ho detto: “Senti, io vorrei vedere, per piacere, la grafica, sono una collega”. La grafica è dove vengono registrati i farmaci somministrati (o sospesi), la pressione, gli esami fatti, l’alvo, la diuresi. “La voglio vedere”, ho insistito. Era sconvolto all’idea e non me l’ha fatta vedere.
Ho portato via mio figlio. Per fortuna mi è stata data l’ indicazione giusta, l’ho portato a Roma al centro Bini diretto dal prof. Koukopoulos, e in 15 giorni, con la terapia corretta, mio figlio è stato riequilibrato.

Trovare lo psichiatra in grado di individuare la terapia giusta è dunque cruciale…
Il grande problema della psichiatria è che da 30 anni esistono farmaci che vanno senz’altro considerati salvavita, ma che purtroppo non sempre vengono usati al meglio; in molti casi non c’è sufficiente preparazione, cultura, capacità di saperli usare. Cioè se una persona ha uno scompenso cardiaco, e devo usare la digitale, so che se la uso ad un dosaggio troppo basso, quella persona può morire per scompenso cardiaco ma se la uso ad un dosaggio troppo elevato, posso provocare una fibrillazione ventricolare e può ugualmente morire. Così è per molti farmaci che abitualmente usiamo: occorre sempre fare attenzione al dosaggio.
Ecco, queste cose, in quella psichiatria, in quel luogo, in quel momento, non le sapevano o comunque non le tenevano nel debito conto. Questo ci ha sconvolto.
Purtroppo mio figlio è stato colpito da questa malattia nella sua forma più grave (si parla di “disturbo bipolare di tipo I”). Come tutti i bipolari inoltre non accettava di essere ammalato per cui buttava via i farmaci. È stata una tragedia.
È in generale difficile ottenere la compliance, ovvero la fiducia, la collaborazione, di questi pazienti, che infatti tendono a non curarsi. Così è stato anche nel caso di mio figlio, che ha eliminato i farmaci e quindi ha tentato di nuovo il suicidio. A quel punto ci siamo recati in un centro più vicino, a Pisa, dove il professor Cassano con la sua notevole esperienza, è riuscito a riequilibrarlo nuovamente.
A quel punto ho capito che non dovevo più mollare mio figlio, nel senso che i farmaci dovevo darglieli io; ed essendo necessario somministrali mattina e sera dovevo essere sempre con lui. Non era immaginabile, in questa ottica, andare in vacanza per 10 giorni, o a un congresso. E così ho rinunciato a tutto, non c’era alternativa.
Con la somministrazione adeguata e monitorata dei farmaci, siamo arrivati a quella che è la dose minima efficace, la dose “ad personam”, che è molto più bassa di quella di partenza.
Comunque, per due medici che avevano passato la loro vita all’università, convinti che se qualcosa non era di loro competenza, c’era un collega specialista che forniva tutte le spiegazioni , trovarci in questa situazione è stato molto traumatizzante ,cioè trovarci di fronte a colleghi che non ci davano alcuna spiegazione(fino al momento in cui siamo approdati a Roma e a Pisa).
Ci sono alcuni centri, nel nostro Paese, che sono ad alto livello. Purtroppo, altrove la situazione è drammatica. Oserei dire che molti psichiatri nostrani hanno difficoltà ad usare correttamente i farmaci psicoattivi.
L’Associazione Minerva è nata anche dalla constatazione che di fronte a una patologia grave bisogna assolutamente andare in centri specializzati, altrimenti la situazione peggiora, si cronicizza, e spesso non c’è più niente da fare. O meglio c’è sempre da fare, però i risultati sono meno soddisfacenti.

Possiamo entrare un po’ più nel merito della malattia?
Si tratta della depressione bipolare, nota anche come disturbo bipolare. Una volta si usava un termine più stigmatizzante: malattia maniaco-depressiva. E’ una malattia che insorge quasi sempre intorno ai 20 anni (ma può insorgere anche intorno ai 15) e può presentarsi via via con meno probabilità fino ai 40 anni. Dopo i 40 anni è raro che possa esordire.
Può esordire anche in maniera subdola, lenta, sembra semplicemente un disadattamento, un disagio, una non capacità di confrontarsi con gli altri, un modo di comportarsi che può apparire spesso segno di superficialità e megalomania, di scarsa considerazione degli altri; tutti atteggiamenti che fanno sì che la persona venga allontanata dagli altri, e però non impara mai, continua a commettere gli stessi errori.
Spesso sono persone che hanno qualità straordinarie, per cui in certi settori(soprattutto artistici) eccellono. Tant’è che ci si chiede: “Ma com’è possibile che una persona capace di essere così speciale, adesso si comporta in questo modo, senza alcuna autocritica, alcuna razionalità?”.
Sono persone che riescono anche a trascinare, a sedurre gli altri, portandoli ad affrontare progetti bellissimi, dopodiché, improvvisamente, se ne disinteressano, e lasciano chi li ha seguiti sperduti, senza una guida.
Quando invece il disturbo è più lieve, si parla di “disturbo bipolare III”. Ma, come ho già detto, il D.B. può insorgere anche in modo violentissimo, e a quel punto è incompatibile con la vita.

In che senso è incompatibile con la vita?
Nel senso che il paziente tenta spesso di uccidersi, e purtroppo molte volte ci riesce. Passare dalle stelle alle stalle, cioè dalla fase euforica, maniacale, alla fase depressiva può essere atroce e se il malato l’ha provato solo un’altra volta, questo passaggio terribile, cioè di sentirsi forte, pieno di vita, pieno di sicurezza, di capacità di dominio sugli altri, e poi vedersi invece ridotto a niente; se l’ha provato una volta, non lo tollera più la seconda, e appena sente che sta arrivando la depressione, tenta di togliersi la vita.
La depressione bipolare è perciò incompatibile con la vita per questa ragione, ma a volte purtroppo questa malattia è incompatibile con la vita anche perché nei momenti di esaltazione il malato può diventare imprudente e affronta con incoscienza imprese pericolose; può’ diventare aggressivo. Non parlo soltanto di aggressività verbale, a volte si può arrivare all’aggressione fisica. Nella fase di eccitazione maniacale chi soffre di questa malattia può commettere vari reati e rovinarsi per tutta la vita, fino a ritrovarsi in quei manicomi criminali che sono così tristemente noti.

Voi avevate avuto qualche avvisaglia?
Nel caso di mio figlio l’avvisaglia è stata un evidente decadimento nel rendimento scolastico. Lui, che era sempre stato bravo a scuola, tra l’altro con estrema facilità, senza impegnarsi molto, ha superato gli esami di maturità con difficoltà. Subito dopo ha fatto l’esame di ammissione alla facoltà di Medicina: è arrivato ultimo. Non riusciva più a concentrarsi nello studio, era preso continuamente da centomila pensieri, che giravano, giravano vorticosamente, senza che riuscisse a fermarli. Questo ovviamente ci aveva lasciati stupefatti e increduli.
Durante l’estate, poi, si sentiva così male, che è ricorso (come accade frequentemente in questi casi) all’autoterapia. Pensava di sentirsi bene prendendo l’ecstasy, che lo “tirava su” quando si sentiva troppo depresso. E questa è stata benzina sul fuoco: la situazione è peggiorata. Così siamo arrivati a settembre.
Lui, che amava il cinema, che spesso frequentava i cineforum, era stato assunto nello staff della stampa alla Biennale del Cinema a Venezia, ma non riusciva neanche a scrivere “Ore 17, conferenza stampa di Nicholson”. Scriveva tutto sbagliato, per cui il capo-ufficio stampa mi ha chiamato e mi ha detto: “Ma, Renata, cosa sta succedendo?”. Poi una sera siamo andati a cena fuori, e sempre il capo-ufficio stampa ha chiesto a mio figlio: “Qual è l’attore che ti è piaciuto di più?”, “Mah… Fellini”, “Come Fellini, ma Fellini è un regista. Cosa dici?”, “No, non è vero, non è un regista, è un attore”. Quindi un disorientamento totale. E poi, subito dopo, ha tentato il suicidio.
L’esordio che ha avuto mio figlio è stato di quelli fulminanti, come nel disturbo bipolare di tipo I, in cui si osserva, oltre allo squilibrio dell’umore (momenti di grande eccitazione e momenti di grande depressione), anche la confusione mentale. Mio figlio ha esordito proprio con la confusione mentale, che può aggravarsi in deliri e allucinazioni.
Ora, quando questi malati vengono visti da psichiatri poco esperti, il risultato è che vengono imbottiti di farmaci neurolettici; il paziente si riduce all’imbambolamento, ad una vita quasi vegetale. Questo è quel che capita, purtroppo, a molti di questi malati.
Bisogna sapere che c’è una variante del disturbo bipolare grave, in cui si manifestano poche fasi maniacali, e invece prevale la depressione, ma una depressione che non è soltanto rallentamento del pensiero, ma anche dello stato fisico: il paziente ha le spalle reclinate, la testa reclinata, non esce di casa, non ha fame, non riesce ad alzarsi dalla sedia, sta spesso disteso a letto. C’è un rallentamento anche della peristalsi intestinale con conseguente stipsi. In generale, l’intero organismo è rallentato, c’è ipersonnia, dormirebbe sempre, al contrario della fase maniacale in cui il paziente non dormirebbe mai.

Uno degli aspetti più terribili di questa malattia è che nella fase “up” spesso i bipolari gettano le basi per allontanare gli altri, così quando arriva la fase “down” la persona si trova completamente sola e isolata.
Cioè nella fase “up” queste persone sono talmente sicure di sé, sprezzanti degli altri, inclini alle battute feroci, che diventano poco sopportabili e la reazione degli altri si fa sentire quando sono deboli e fragili cioè nella depressione; inoltre se fanno qualcosa di bello, qualcosa per cui gli atri potrebbero essere loro grati per tutta la vita, con un comportamento all’opposto, lo distruggono .Sono autodistruttivi.
Apro solo una parentesi per dire che a soffrire di questa patologia sono stati anche grandi attori, pittori, scrittori, musicisti perché queste persone frequentemente sono straordinari nell’attività artistica, ovviamente quando la malattia non è alla sua massima gravità, ma concede una pausa o sono in quel periodo straordinario che difficilmente chi non conosce questa malattia può immaginare, l’ipomania. Molti di questi artisti purtroppo hanno concluso la loro vita con un suicidio (Virginia Woolf, Schuman, lord Byron, ecc.). La fase di maniacalità è distruttiva e allontana da questi malati anche chi vorrebbe aiutarli, portandoli all’isolamento.

Che tipo di terapia, di aiuto, vanno forniti?
Se il disturbo bipolare è di lieve e media entità, i farmaci possono non essere necessari. Può essere efficace la psicoterapia, ma quella comportamentale, non la psicoanalisi. Va detto che in un primo momento il paziente la rifiuta, perché vorrebbe parlare parlare parlare, invece la psicoterapia comportamentale ti dice: “Bene, adesso ci troviamo di fronte a questa situazione, mi pare che l’unica strada sia questa. La tentiamo, insieme, cioè tu provi a fare così: con calma, cerchiamo di eliminare tutti gli altri problemi, facciamo solo questo…”. Cioè la psicoterapia comportamentale ti dà compiti precisi, semplici, ma nella fase iniziale queste persone sono in preda al caos, per cui non sono disponibili a seguire questi consigli. Allora è necessario rimandare la psicoterapia a un secondo momento, quando il paziente è stato riequilibrato farmacologicamente.
All’inizio è molto importante dire: “Lei ha questa malattia, deve cambiare stile di vita”. Cosa vuol dire “cambiare stile di vita”? Vuol dire andare a letto sempre alla stessa ora, dormire come minimo otto ore, rispettare rigorosamente il ritmo sonno-veglia, anche a costo, all’inizio, di indurre il sonno con qualche farmaco (e a volte basta solo quello per riequilibrare un paziente bipolare di lieve entità).
E ancora si dice e si insiste: “Lei, l’alcool, lo deve eliminare. Deve eliminare tutte le sostanze eccitanti, perché se prende un caffè, è come se una persona senza D.B. ne prendesse dieci, e questo vale anche per la coca cola (che contiene caffeina), il the, la nicotina…”. E poi, cosa ancor più difficile, devi spiegare: “Guardi che lei, se si trova ad affrontare emozioni forti, non regge, perché le emozioni creano uno squilibrio nel sistema regolatore cerebrale serotonina-dopamina, per cui rischia di andare in uno stato di eccitazione seguito poi dalla depressione. Lei deve evitare le emozioni forti”. Figurarsi! E’ come prospettare a questo individuo la morte! Rispondono: “Ma come, cosa vuol dire? Ma io cerco sempre e soltanto di innamorarmi, io cerco sempre e soltanto emozioni, io se non posso andare in montagna e fare scalate che pochi vogliono affrontare, non me ne frega niente… ma come? Mi metto in pantofole!?!”. È molto difficile. Infatti, di solito non ti ascoltano. E ritornano in una fase successiva, in cui stanno ancora peggio. Ma non ti ascoltano ancora.
Sapessi com’è difficile… e così poi arrivano a quella fase in cui è ancor più difficile curarli .In pratica, bisogna al più presto cominciare con gli stabilizzatori dell’umore.
È quello il farmaco più adatto.
Non si devono usare fin dall’inizio (a meno che non sia assolutamente necessario) neurolettici, antipsicotici, e tanto meno, oppure con molta attenzione, si devono dare gli antidepressivi. Gli antidepressivi possono anche aiutarli, nella fase della depressione, ma dopo un po’ di tempo possono portarli allo switch, cioè alla fase maniacale, e allora, se continuano a prendere l’antidepressivo, è molto difficile recuperarli.
Per quanto riguarda gli stabilizzatori dell’umore, il più antico, conosciuto anche dagli antichi greci, è il Litio, che continua a essere il farmaco meno dannoso, perché è un sale minerale, qualcosa che abbiamo già in natura, ha perciò pochi effetti collaterali, tanto più che oggi non si usano più le alte dosi di una volta (fino a 2000 mg), ma dosi minori (circa 700 mg). Il Litio ha un forte effetto stabilizzante dell’umore, e può essere associato ad altri farmaci stabilizzanti, anch’essi a basso dosaggio. Si preferisce cioè associare due farmaci a basso dosaggio piuttosto che un solo farmaco ad alto dosaggio, perché così si riducono gli effetti collaterali.

L’idea dell’Associazione è nata proprio da questo nostro terribile impatto con la malattia e, va detto, anche con la psichiatria .Quando ti capita una cosa del genere, poi ti accorgi che c’è tanta gente in situazioni altrettanto disperate, che si imbattono nei tuoi stessi errori.
È stato a partire da questa constatazione che mio marito e io abbiamo voluto cercare una formula per aiutare gli altri. È stata anche una forma di “rabbia scientifica”. Non è accettabile che ci sia un’ignoranza tale, tra tutti i medici (e parlo anche per noi): bisogna, cioè, che si diffonda una maggior conoscenza delle patologie psichiatriche e in particolare di questa malattia, il disturbo bipolare, che è molto diffusa. Il disturbo bipolare è la malattia mentale più diffusa, complessivamente colpisce il 10% della popolazione, nelle forme gravi intorno al 3% della popolazione. Sono percentuali fornite dalle più importanti ricerche epidemiologiche. In una città di 300.000 abitanti, possiamo ipotizzare che il 3% della popolazione (cioè 9000 persone) sia grave, cioè incompatibile con una vita normale. Ma allora come mai, secondo i dati epidemiologici forniti dalla Regione, vengono curate poche centinaia di persone dai servizi psichiatrici pubblici?
Il fatto è che la malattia mentale, come è risaputo, è vittima di un grave stigma, per cui varcare le porte della psichiatria pubblica è traumatizzante; vanno nelle cliniche private, che sono strapiene. Ma questo vuol dire dissanguare le famiglie. Oppure si ricorre allo psichiatra privato, di nascosto, che li vede una o due volte la settimana: 150 euro, 200 euro… Sai cosa vuol dire per le famiglie con poche possibilità economiche? La rovina, perché una volta che lo psichiatra è riuscito ad agganciare il ragazzo, questi non vuol più staccarsene, quindi la famiglia è disperata, perché non ha soldi e deve continuare a pagare.

Perché non si ricorre al servizio pubblico? Non è attrezzato?
Ho detto che non vanno al servizio pubblico per lo stigma, però si potrebbe obiettare che andare nelle case di cura private non è così diverso, perché tutti sanno che sono residenze per malattie mentali, nonostante i nomi “Villa Serenità”, “Parco dei fiori”, “Villa Sole”, in cui la parola “psichiatria” non appare. Allora perché lì lo superano, lo stigma? La risposta è che nel privato la situazione logistica e di accoglienza è completamente diversa. Cioè queste cliniche sono degli alberghi, dove il cibo è buono, gli infermieri gentili, i medici sempre presenti. I malati hanno la loro stanza, col loro bagno, i familiari possono andarci molto spesso, è tutta un’altra cosa. Purtroppo, come s’è già detto, spesso i farmaci non li sanno usare bene né nel pubblico né nel privato, ma almeno in quelle cliniche sono coccolati, c’è un bel giardino, un posto all’aperto. Nei nostri ospedali non ci sono giardini, ci sono solo stanze di cui purtroppo ancora molte con le sbarre.

Come Associazione, cosa fate?
Il nostro primo obiettivo è dimostrare che queste persone possono essere curate bene. Abbiamo perciò istituito un ambulatorio dove opera uno psichiatra specializzato in questa patologia; ambulatorio che offriamo gratuitamente a persone che vengono da noi completamente scoraggiate: dicono che non nutrono più alcuna speranza per i loro cari. Le domande che fanno i genitori sono sempre: “Ma cosa fate voi? Mi aiutate a metterlo in una residenza protetta? Aiutatemi a metterlo da qualche parte, perché stiamo impazzendo…”. Spieghiamo che raramente è necessario che questi malati vengano messi in residenze protette, perché non devono quasi mai essere reclusi, possono benissimo vivere in mezzo a noi, perché con la terapia adeguata tornano uguali a tutti gli altri.
Lo psichiatra pesa molto sotto l’aspetto economico all’ Associazione; ci siamo autotassati; abbiamo avviato una campagna di sensibilizzazione e devo dire che abbiamo trovato una buona risposta nella popolazione; abbiamo organizzato concerti, lotterie, cene, e abbiamo così raccolto fondi, che investiamo in questo ambulatorio.
L’altro impegno che ci siamo assunti è insegnare ai familiari la “farmacovigilanza”, che non vuol dire soltanto controllare i farmaci, mettere in bocca il farmaco al paziente. La farmacovigilanza significa imparare a riconoscere i sintomi e comunicarli tempestivamente allo psichiatra. I sintomi di ripresa della malattia possono presentarsi anche in presenza di una terapia costante. Inoltre se si modifica la terapia farmacologica, è ovvio che varia anche l’umore: se il malato per uno-due giorni non prende il farmaco che blocca l’eccitazione, è come se si togliesse il coperchio a una pentola a pressione.
Spesso non è la malattia, è l’uso sbagliato del farmaco che provoca l’eccitazione o la depressione. La malattia cova sempre sotto, e allora anche se con il farmaco adatto il paziente può apparire riequilibrato, può accadere che, per una qualche ragione, un’emozione forte, una delusione, l’umore possa cambiare ugualmente. Perciò i famigliari devono vigilare e avvertire subito lo psichiatra: devono cioè imparare molto bene il monitoraggio della patologia e dei farmaci.
A tale scopo io stessa organizzo riunioni e insegno questo ai familiari. La maggior parte di loro apprende velocemente, sono molto bravi. Purtroppo nel nostro Paese questa è un lavoro che non viene mai fatto o viene fatto molto male. Negli Stati Uniti, invece, i familiari vengono coinvolti in base alla considerazione che proprio loro devono diventare i primi psicoterapeuti, perché possono vedere nel quotidiano quello che nemmeno lo psichiatra, che non vive con il malato, può vedere.
Perché la farmacovigilanza possa essere utile ai medici curanti, occorre insegnar loro ad esprimersi con i termini tecnici giusti, perché di solito dicono: “Ah, è stato male…”..
Ma un conto è lo stare male perché il paziente è eccitato, un conto perché se ne sta sempre a letto e non parla più. Ecco perché devono imparare a descrivere i sintomi.
Cerchiamo anche il rapporto con i giornali, perché dobbiamo assolutamente fare informazione. Organizziamo alcune conferenze all’anno e convegni specialistici. Così, per esempio, assieme all’Università e all’Ordine dei medici, abbiamo organizzato un convegno per i medici di base, perché sono loro il primo riferimento per queste famiglie e devono saper riconoscere queste patologie che sono, come ripeto, molto frequenti. Abbiamo fatto convegni anche con gli avvocati e con i giudici. Questo è il nostro terzo impegno. Come accennavo, le persone colpite da questa malattia possono commettere atti illeciti nel momento di eccitazione, di rabbia. Ora, è evidente che ogni illegalità va sanzionata, la giustizia deve fare il suo corso. Però non si può non prendere in considerazione il fatto che talvolta certi episodi possono essere dovuti a un’errata prescrizione dei farmaci. Se i genitori di questi pazienti hanno telefonato al medico dicendo: “Non lo vedo bene, sta male, per piacere, ho bisogno di portarglielo subito” e non viene visitato subito, non viene monitorato, viene visto dopo 40 giorni o dopo due mesi, la colpa per il reato commesso non può essere addebitata al paziente.

Qualora la persona venga presa in carico adeguatamente, è una malattia che dura comunque per tutta la vita?
Purtroppo sì.

Ma con le terapie adeguate, si può sperare di tornare come prima?
Quando la patologia ha colpito gravemente (tipo I), il paziente non ritorna mai come prima, non ha più lo smalto di prima, assolutamente. Purtroppo questo è il caso di chi è colpito da giovane. È molto diverso se la persona viene colpita più avanti negli anni. A 30 anni un paziente che ha il suo lavoro, anche se subisce il contraccolpo della depressione bipolare, se non si lascia trascorrere troppo tempo prima di instaurare la terapia più corretta, nel giro di un mese o due può ritrovare un equilibrio e riprendere la sua vita. Sfortunatamente i dati ci dicono che passano spesso dai 5 ai 10 anni prima di avere la giusta diagnosi e l’aiuto necessario.
L’altra nota particolare è che queste persone, quando tornano alla vita normale, tendono a cambiare occupazione: spesso cercano un lavoro in cui sono loro i padroni della situazione. Talvolta scoprono di avere una propensione artistica. Tendenzialmente, lasciano il lavoro in cui sono sottoposti continuamente a un giudizio. Ripeto, la ripresa dipende molto dall’età e dalla gravità della malattia. Il caso più terribile è quando viene colpito un ragazzo che non ha ancora un lavoro, una vita sentimentale, perché possono passare 5-10 anni prima di avere una diagnosi corretta. Lì si perdono anni che difficilmente si recuperano. Ma negli altri casi, se il disturbo bipolare non è di tipo I, cioè quello più grave, ritornano perfetti, come prima. E tuttavia non possiamo parlare di guarigione, perché la terapia, per quanto ridotta alla dose minima, va mantenuta per tutta la vita.

Economicamente queste famiglie che sostegno hanno?
Allo stato attuale non hanno nessun sostegno. È la disperazione più nera. Quando mio figlio si è ammalato, io ho lasciato tutto, la clinica, l’attività professionale, ma io avevo le possibilità per farlo; ho avuto, nella mia sfortuna, la fortuna di poterlo fare. Non è così per tutti. Quando si parla di nuove povertà, sono queste: trovarsi con un figlio ammalato e nessuno che ti aiuta. Si è più aiutati con un figlio down, o autistico, o paraplegico.
L’unica strada mi sembra resti quella che Basaglia aveva previsto, cioè la psichiatria di territorio, solo che bisogna farla con molto rigore.
Psichiatria di territorio significa che lo psichiatra -non l’assistente sociale o l’infermiere! – si reca nell’abitazione dell’ammalato e comincia a parlarci, a convincerlo, a dargli la prima terapia. Se il paziente non si lascia convincere, si può ricorrere a quello strumento che è il TSO, vale a dire al “trattamento sanitario obbligatorio” (cui peraltro è raro si debba arrivare). Purtroppo invece è difficile che gli psichiatri vadano a domicilio, stanno più volentieri nei loro studi, dove incontrano i pazienti che poi rivedranno dopo 20 o 30 giorni. Ma questa non è medicina di territorio… Questi malati vanno seguiti pressoché quotidianamente nella fase iniziale, a casa o in day-hospital o nei Centri Diurni; e se per caso il paziente non si fa trovare, nonostante l’appuntamento, va chiamata l’Unità mobile che lo cerchi perché queste persone possono diventare pericolose per sé e per gli altri, se non controllate farmacologicamente. Comunque, per fortuna, situazioni di questo genere si verificano di rado perché se si riesce a individuare la terapia giusta, loro sentono che stanno bene e non appena cominciano a star bene, ritornano a una vita normale, fatta di progetti, di affetti, di lavoro.
Quanto al ricovero ospedaliero, è per lo più non necessario, va riservato ai momenti di acuzie della malattia.
Da quando nostro figlio viene curato adeguatamente, non ha più avuto crisi, e ciò da circa dieci anni. Non ha più visto una clinica, non ha più parlato di suicidio, sta studiando, certo con difficoltà perché è stato colpito in forma grave e quindi i farmaci che prende non sono leggeri. Però riesce a studiare, a lavorare al computer, e sta facendo i suoi progetti.
Alla fine quello che conta è che una persona non stia male, non soffra, se poi non diventa un avvocato, un manager, uno che guadagna tanti soldi, che importanza ha? Sono assolutamente da evitare lavori non adatti a loro, ripetitivi, impiegatizi o addirittura umilianti e spesso per pochi euro: il risultato non è mai terapeutico ma solo dannoso e spesso con gravi conseguenze.

La preoccupazione del “dopo di noi” è forte?
È un pensiero costante. Cosa succederà quando noi non ci saremo più? Non dobbiamo pensarci. Speriamo sempre che succeda qualcosa, che escano farmaci più attivi e senza effetti collaterali. Anni fa è uscito un farmaco straordinario, che ha salvato tanta gente. Il corrispettivo della penicillina in psichiatria è stata la clozapina. Ora c’è l’aripiprazolo, che non ha più gli effetti collaterali della clozapina, ed è molto maneggevole. Però ad alcuni fa effetto, ad altri no. Le neuroscienze sono in un momento di grande effervescenza; le scoperte sono continue. A noi non resta che sperare, e basta. Ho imparato tante cose in questi anni; ignoravo totalmente questo aspetto della medicina. Quando vivi esperienze di questo genere sulla tua pelle, non resta che darsi da fare; capisci, senza alcun dubbio, che è una questione di vita o di morte. E allora impari e molto velocemente.